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Un altro dei pregiudizi tipici che si ha contro certo heavy metal – e in particolare contro i gruppi tedeschi dei ‘generi classici’ – è che ‘non si può certo pretendere che siano originali’, perché ‘sono in giro da tantissimi anni e non devono dimostrare più nulla’ (versione buona), oppure perché ‘la loro fase creativa si è ormai esaurita da tantissimo tempo e vanno avanti con il pilota automatico’ (versione cattiva). Questo giudizio standard, almeno a quanto leggo in giro, investe in particolare formazioni come Accept, Grave Digger, Mystic Prophecy, Primal Fear, in certa misura i Running Wild e, naturalmente, i Paragon di Martin Christian e Andreas Babuschkin.
Ora: questa clamorosa scoperta dell’acqua calda – cioè che in un genere conservativo come l’heavy/power metal formazioni in giro da 30 o 40 anni generino dischi conservativi – è, come sempre, un modo per screditare questa musica senza alcun motivo: sarebbe come iniziare una recensione di un album black con ‘anche in questo disco il cantante x usa lo screaming e il batterista y usa i blast beat, si vede che la fase creativa della band si è esaurita da tantissimo tempo e vanno avanti con il pilota automatico’. Ma davvero?! Non faremmo meglio a giudicare il disco all’interno delle sue coordinate stilistiche e di genere, e nel suo contesto temporale, geografico e oserei dire ‘culturale’, per verificare se è scritto bene e contiene bei brani oppure no?
Alla luce di questa ennesima tirata del vostro old grumpy power metal man, e per essere spero sufficientemente oggettivo, il tredicesimo disco dei Paragon riesce ancora a difendersi. Senza fare necessariamente confronti con un passato glorioso (che è un altro errore evitabile, per i motivi di cui sopra), e per quanto ovviamente omogeneo in termini di songwriting, contiene alcuni brani che caricano a dovere l’ascoltatore. A noi recensori arriva la versione CD a dieci brani, che contiene anche la bonus track “Hellgore”, riregistrata rispetto alla resa di “Screenslaves”; chi sceglie il digitale o il vinile si accontenta di nove canzoni.
Cosa menzionare in positivo, allora? Rabbiosa, torrenziale, incessante “Fighting The Fire”, che ci dimostra come i tedeschi sappiano ancora il fatto loro. Semplicissima ma incisiva “Slenderman”, mentre “Beyond The Horizon” è quello che si definisce ‘il mid-tempo pachidermico’, da sempre caratteristico delle produzioni dei tedeschi. “MarioNET”, dal canto suo, flirta amabilmente con il thrash, e ha un testo interessante, dedicato alle manie di grandezza complottiste dei ‘leoni da tastiera’. Cosa non salvare, invece? Fin troppo elementare “Burn The Whore”, simile a decine di altri brani proposti dai tedeschi. La titletrack prova a variare un po’ le carte, inserendo chitarre acustiche qui e lì… il reale cambiamento finisce per essere minimo. Anche “My Asylum” si giova di parti acustiche, stavolta in modo più corposo e sistematico, per un risultato più soddisfacente ma comunque non galvanizzante.
Tenendo conto del clima in cui è stato composto (stando alla nota stampa, la band si era praticamente sciolta durante la pandemia, e si è ricostituita soltanto con l’inserimento del batterista Jason Wöbcke, nientemeno che figlio di Martin Christian), Metalation è un disco accettabile da parte di una band che non deve dimostrare più null… scusate, il pregiudizio è così forte che rischio di caderci perfino io!