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Soulbound è il quarto album solista del veterano e imperterrito cantante Robin McAuley (ex Grand Prix, ex Far Corporation, ex Michael Schenker Group, Survivor, Black Swan) che esce anche stavolta per l’etichetta discografica Frontiers Records. La novità di questa sua nuova fatica discografica è l’appesantimento del sound grazie al contributo del nuovo produttore Aldo Lonobile (Edge Of Forever, Secret Sphere, Sunstorm) che ha messo pure in evidenza l’ottima voce del cantante spingendolo così oltre i suoi confini creativi ma lasciandolo sempre legato alle sue radici hard rock.
“Soulbound è un disco molto più tagliente e guidato dalla chitarra rispetto ai miei due precedenti per l’etichetta. Inoltre, sto lavorando con un nuovo produttore dell’etichetta Frontiers, Aldo Lonobile, che ha dato vita a queste canzoni con la sua produzione Kick-Ass”, afferma McAuley.
La performance vocale di Robin qui è semplicemente straordinaria e sorprendente dato che l’artista ha compiuto da poco ben settantadue anni di età. Se poi aggiungiamo che è circondato da ottimi musicisti italiani, come i chitarristi Andrea Seveso e Alessandro Mammola, il batterista Alfonso Mocerino e lo stesso Ando Lonobile al basso e alla chitarra, arriviamo ad avere un prodotto di buona qualità e molto piacevole da ascoltare. Lo si sente immediatamente dal primo pezzo, “Til I Die”, dove la band sprigiona note ad alta energia che seguono la rauca e ancora combattiva ugola del mitico cantante irlandese. Il sound è essenzialmente un classico hard rock melodico con importanti elementi metal inseriti per l’occasione dal virtuoso e abile Lonobile. La durezza e la melodia continuano a braccetto con la tiltle track: “Soulbound”, ma con l’aggiunta in sottofondo di leggeri sintetizzatori. Il brano è comunque basato su spigolosi e possenti giri di chitarra e assoli mozzafiato in un contesto fresco e moderno che piace da subito. Il cantante non si limita a riproporre il periodo migliore dell’hard rock, ma va oltre miscelando i classici elementi rock con altri contemporanei spingendosi a rimanere al passo con i tempi. Ne è un perfetto esempio la robusta e quasi power “The Best Of Me”, dove emergono ancora la grinta e la voglia di essere protagonista per via della sua ancora potente timbrica vocale. Qui il melodico ritornello e i ritmi sono trascinanti e alquanto adrenalinici. Se la precedente traccia travolge i timpani per la sua durezza, la successiva e ottantiana, “Crazy”, rallenta invece l’intensità sonora ma con una cadenza esaltante e un avvincente ultra-melodico refrain che fa venire i brividi in tutto il corpo.
Robin è fantastico a livello vocale e interpretativo in questa romantica e toccante semi ballata, dove canta in modo più fluido e melodico del solito. La fumante e immediata “Let It Go” è un mid-tempo che conferma lo stato di grazia del musicista irlandese che qui omaggia lo stile dell’amico Schenker. Le taglienti e sinuose chitarre elettriche di Seveso e Mammola si intrecciano con le aspre e acute corde vocali del frontman e con una battente sezione ritmica. Sulla stessa scia troviamo l’orecchiabilissima, “Wonder Of The World”, e la determinata “One Good Reason”. Entrambe sono caratterizzate dalla cruda e profonda voce di Robin, da affilati giri di chitarra elettrica e da solidi assoli chitarristici al fulmicotone. L’alta qualità delle canzoni prosegue con la grezza “Bloody Bruised And Beautiful”, dove i forti e intermittenti riff delle due chitarre elettriche e il ringhiante basso di Aldo guidano la composizione verso un tradizionale rock duro. Questa volta il combo lascia spazio anche a momenti ambientali, riflessivi e armoniosi che ben si addicono al pezzo. La terzultima e cadenzata, “Paradise”, ha un ritmo ruggente che esalta ancora le melodiche e acutissime corde vocali di McAuley in un contesto sonoro ben bilanciato da una massiccia e tecnicissima strumentazione. L’aspetto positivo di quest’opera è quella di non contenete inutili riempitivi ma al contrario ogni canzone è studiata in ogni minimo dettaglio e con interessanti melodie che il quintetto riesce a sviluppare in modo convincente e con una mostruosa tecnica. Penso alla penultima “Born To Die”, altro pezzo da novanta vicino allo stile del leggendario Michael Schenker, che con il suo ruffiano e melodico ritornello e i suoi aggressivi e infuocati giri di chitarra elettrica cattura da subito l’attenzione dell’ascoltatore più distratto e superficiale. Colpisce sempre il dinamismo e la versatilità vocale dell’instancabile McAuley che mostra ancora una volta tutta la sua innata attitudine al rock di classe e di qualità, come nell’ultima e veloce, “There Was A Man”. Qui il gruppo propone ancora un emozionante scia melodica guidata dai riff tellurici e intricati delle due sei corde elettriche accompagnate dall’ autorevole batteria di Alfonso Mocerino e dal sottilissimo lavoro tastieristico di Antonio Agate che aggiunge comunque consistenza e spessore in tutto il disco rendendolo più stratificato e sofisticato.
Robin McAuley è tornato più in forma di prima e con un’opera musicale che contiene molte canzoni di alta qualità offrendo ai fans e agli amanti del genere qualcosa di importante e duraturo nel tempo. In definitiva, siamo di fronte ad un album che pecca di originalità ma che mostra tutta la bravura e la resilienza di un artista capace ancora di dire qualcosa a livello musicale rimanendo al passo delle sonorità attuali e senza dimenticare le sue importanti origini artistiche. Certamente sarà un sicuro protagonista dell’imminente Frontiers Rock Festival.