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Per indurre il vostro stato ordinario di coscienza, che spesso si esaurisce nei gorghi di inutilità di una quotidiana lotta per la sopravvivenza.
Per indurre il vostro stato ordinario di coscienza in una forma di ipnosi, ecco, aprite il vostro mondo sensoriale a quest’album dei Di’Aul, EvAAvE, che ne vale proprio la pena.
Si danza tra carcasse di animali, tra vortici di terra sollevati dai riff di uno sludge/doom che prende a picconate l’ascoltatore, e poi si dispera mentre lo seppellisce con la lentezza di chi deve espiare una colpa.
Un album che chi vi scrive ha avuto il piacere di ascoltare dal vivo alla sua release il 7 febbraio 2025 allo Slaughter Club di Paderno Dugnano. Otto tracce senza soluzione di continuità, eseguite tanto sul palco quanto in studio, che danno vita ad un disco carico di fascino, come una moto d’epoca, che pare quasi fuori moda, fuori tempo massimo, ma che cattura per il suo originale magnetismo minimale. E quando ormai anche il mondo del metallo casca come l’asino nel buco del trucco e parrucco a profusione, è con altrettanto minimalismo d’immagine che si muovono questi quattro trafficanti di suoni pesanti. La voce, quella di MoMo, gratta l’anima con il calore del sole a picco, la chitarra tra le abili mani di Lele si destreggia da sola con la naturalezza e la sinuosità di una serpe nel deserto, il basso, imbracciato da Jeremy, suona come un monolite levigato dal tempo, in grado di regalare la rotondità giusta alla batteria di Rex, incalzante, impeccabile, maschia, mai invadente. Giunti all’ennesima tappa del loro percorso artistico dopo Abracamacabra del 2022, i Di’Aul pubblicano EvAAvE con la Minotauro Records e registrano il tutto in presa diretta presso i Vacuum Studio di Bologna. L’apertura del disco, “Duende”, ci lancia senza delicatezza tra le fila di una carovana arrugginita e rumorosa, che marcia a passo costante verso un tendone da circo che emerge in lontananza su tonalità seppia in “Tar Wings”, l’ingresso nel freak show. La figura femminile in copertina, una Madonna di Munch, potrebbe sussurrarvi all’orecchio le parole di “Mad Dalena”: un cantico senza volto, triste, come la Maddalena delle Sacre Scritture, che ci induce ad unirci alla preghiera intonata da fantomatici astanti. Le chitarre piangono in una mesta lentezza sul finire, ricordando le lacrime della donna ai piedi della croce. Trascinati verso la traccia successiva, “Petricore”, la cadenza sempre più lenta caratterizza la ritmica, alla quale si aggrappa una voce in dialogo costante con la chitarra, fino a disegnare il ritratto dell’uomo dal cuore di pietra che dorme sull’agnello di Dio. Bellissimo e disperato il verso finale “We’re sleeping on the Lamb of God“. Uno schiaffo in faccia, una mano potente, riporta sul pianeta Terra, insabbiato come i bordi della Via della Seta, con “Succubi et Incubi”: sonorità orientali si librano da un punto indefinito della carovana e una voce a pieni polmoni accompagna il nostro incedere pesante, sottolineato da riff che evolvono verso “F.O.M.O.”, Fear Of Missing Out, brano che accompagna le gocce di sudore di questa marcia, sotto un sole oscurato da nubi di una cenere che ben si abbina al sentore di prigionia che si respira. In “Geosmina” la voce e la batteria si intrecciano creando qualcosa che somiglia ad un mantra: è il momento del sacrificio, del rituale per spezzare le catene, come si evince dall’assolo finale, pulito e ossigenato come un respiro sopra alla coltre di nubi.
E non possiamo che giungere alla titletrack, “EvAAvE”: un attacco lento e sognante, il cielo si apre, il tendone da circo vola via, la cenere cade, ci sporca il viso e i capelli, i lineamenti si confondono rendendo irriconoscibili i nostri compagni di questo viaggio intimo e umano. L’artwork della copertina ricorda la volta della Camera Picta del castello di San Giorgio a Mantova (Andrea Mantegna, 1465). Eppure la prospettiva qui è diversa, per la musica, per i testi, per le immagini in cui si rimescolano le dimensioni…
E mentre ascoltiamo quest’ultimo pezzo ci sorge la domanda: stiamo quindi finalmente guardando un cielo limpido oppure il peso sulle nostre schiene ci tiene chini, e possiamo soltanto osservarne il riflesso in uno specchio d’acqua? Abbiamo assistito ad uno spettacolo divino, o abbiamo guardato dall’alto fenomeni da baraccone brulicare in un terrario che assomiglia al nostro Pianeta?
Un titolo palindromo. Un’ode al femminile. Una marcia intima, nei luoghi deserti dell’anima.
Da che parte guardare questo spettacolo, non spetta a noi dirlo. E forse, anzi, sicuramente, va bene così