THE DEAD DAISIES – John Corabi


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THE DEAD DAISIES – Giù Al Fame

Con “Lookin’ For Trouble” i The Dead Daisies fanno un tuffo nel passato più ruvido e sincero del rock, rendendo omaggio alle radici blues che hanno ispirato generazioni di musicisti. Non si tratta di un semplice album di cover: è una dichiarazione d’amore per una musica fatta di polvere, sudore e anima, nata nei juke joint dell’America profonda e filtrata oggi attraverso l’inconfondibile sound della formazione. Abbiamo parlato con John Corabi, voce carismatica e anima rock’n’roll, che ci ha raccontato com’è nato questo progetto (quasi per caso, grazie a una jam notturna ai leggendari FAME Studios), il rispetto per gli autori originali, la visione “zeppeliniana” degli arrangiamenti, e il sogno che questo disco possa far scoprire Muddy Waters o Robert Johnson anche ai fan più giovani. Tra aneddoti, risate e riflessioni sul senso di suonare blues nel 2025, emerge un ritratto sincero di una band che sa divertirsi, emozionare e — perché no — anche prendersi poco sul serio. E alla domanda su chi sia il vero “piantagrane” del gruppo, la risposta non si fa attendere…

English Version HERE!

Com’è nata l’idea di realizzare un intero album di cover blues? Era qualcosa che avevate pianificato da tempo, oppure è davvero iniziato con quella famosa jam session ai FAME Studios?

Tutto è nato un po’ per un “felice incidente”. Volevamo tutti andare ai FAME Studios di Muscle Shoals, e il nostro manager è riuscito a farci avere 9 giorni lì per scrivere qualcosa per il disco Light Em’ Up. Eravamo completamente affascinati dalla storia del posto, dall’attrezzatura vintage, dalle foto… A un certo punto, di sera, abbiamo iniziato a suonare delle cover blues per divertimento. Marti teneva sempre acceso il sistema ProTools e ha registrato alcune jam: ci sono sembrate davvero fighe. Così abbiamo deciso di fare un disco blues. Abbiamo scelto i brani, li abbiamo riarrangiati secondo il nostro stile e li abbiamo registrati tutti dal vivo.

Cosa rappresenta per te il blues? Solo una radice musicale, o anche un’attitudine, uno spirito?

Tutte queste cose insieme. Molti di questi artisti che hanno scritto quei brani classici suonavano da un locale all’altro, nei juke joint, guadagnando pochissimo. In pratica venivano pagati in cibo e alcol, suonando per un pubblico entusiasta. Gran parte dell’“America bianca” non apprezzava la “musica del diavolo” né il comportamento in quei club, quindi questi artisti scrivevano canzoni su argomenti vicini a quel tipo di pubblico. Vivevano davvero ciò che cantavano. E lo facevano per amore della musica, non per soldi — di certo non si arricchivano! Quanto alla musica in sé, per me il blues è il seme di ogni genere musicale, tranne la classica.

Come avete scelto le dieci tracce dell’album? C’era un criterio comune o ognuno ha portato i suoi brani preferiti?

A dire il vero, nessuno di noi è un esperto di blues. L’idea era di fare una selezione di brani blues classici che avevamo conosciuto grazie ai grandi artisti degli anni ’60 e ’70. Ad esempio, David voleva assolutamente fare “Little Red Rooster”, perché fu la prima canzone che vide suonare dagli Stones in TV in Australia, e se ne innamorò — senza sapere che fosse una cover blues. Io conobbi “Crossroads” grazie ai Cream e ai Lynyrd Skynyrd. Quindi tutti questi brani hanno per noi un significato speciale, legato a come li abbiamo scoperti attraverso altri artisti.

Quanto è stato difficile restare fedeli allo spirito originale di questi pezzi filtrandoli però con il vostro stile?

Anche qui, sinceramente, volevamo ovviamente rispettare l’integrità dei brani. Ma durante gli arrangiamenti scherzavamo tra di noi chiedendoci: “Cosa farebbero i Led Zeppelin?”. Loro hanno fatto una cover brillante di “When The Levee Breaks” (scritta nel 1929 da Memphis Minnie e Kansas Joe McCoy sul disastro del Mississippi del 1927), mantenendo testo e melodia, ma trasformando il brano in qualcosa di totalmente loro. Quello è stato il modello che abbiamo cercato di seguire per tutto il disco.

“Boom Boom” è stato scelto come singolo — perché proprio questo pezzo?

In realtà, “Boom Boom” è il secondo singolo del disco. L’etichetta ha pubblicato “Crossroads” il 27 febbraio, se non sbaglio, e c’è anche un video. Ma “Boom Boom” è piaciuto tantissimo sia alla gestione che all’etichetta, quindi hanno voluto puntare su quello.

I The Dead Daisies sono noti per avere una formazione in continua rotazione. Come influisce questo sulla vostra identità sonora?

Ugh… odio questa domanda… (ride). Se guardi bene le formazioni degli album, noterai che in realtà c’è stato un nucleo abbastanza stabile. Molti dei nomi nella lista degli “ex membri” sono amici che ci hanno dato una mano temporaneamente, per una sostituzione o un’emergenza. Li aggiungiamo comunque alla “famiglia” dei Daisies. A parte Jon Stevens, Glenn Hughes e me, in studio la formazione è stata piuttosto costante.

Sarah Tomek è una presenza nuova e fresca nella storia della band. Com’è stato lavorare con lei alla batteria?

Sarah è entrata perché Brian (Tichy) aveva appena informato il nostro management di alcuni problemi di disponibilità. Quando abbiamo iniziato a lavorare su Light Em’ Up e poi su questo disco, siamo andati in studio con Evan (il figlio di Marti) e Sarah. Evan ha suonato la batteria su Light Em’ Up, mentre Sarah ha registrato le parti per Lookin’ For Trouble (Evan ha poi dato supporto alla parte tecnica). Tommy Clufetos è il batterista ufficiale dei Daisies… Ma per la cronaca: Sarah è stata fenomenale sul disco blues!

Quanto è democratica la band quando si tratta di scrivere, arrangiare, prendere decisioni creative?

La band è molto democratica in studio! Tutti contribuiamo alla scrittura e alla costruzione del disco. È davvero una delle band più facili con cui abbia mai lavorato, in termini di scrittura, registrazione ed efficienza.

In un’epoca dominata da streaming, algoritmi e mode veloci, che senso ha pubblicare un disco blues oggi — con canzoni scritte anche 60 anni fa?

Beh, tutto è nato dall’ispirazione del luogo. Storicamente abbiamo sempre fatto dei tributi agli artisti che ci hanno influenzato. Con questo disco abbiamo voluto rendere omaggio agli artisti che hanno influenzato i nostri eroi, come Zeppelin, Aerosmith, Stones… Quanto a streaming e algoritmi, beh… questo tocca al manager e alla label. Io con la matematica faccio schifo! (ride)

Pensate che con Lookin’ For Trouble qualche giovane possa scoprire Muddy Waters o Robert Johnson?

Speriamo proprio di sì. Mi sorprende ancora che molte persone non sappiano, ad esempio, che “Midnight Moses” è dei Sensational Alex Harvey Band. Una volta, durante il tour di Make Some Noise, un critico musicale non aveva idea che “Join Together” fosse degli Who! Registrare questi brani blues ci ha spinto a fare ricerca su chi li avesse scritti, in che periodo, ecc. Quindi speriamo che questa curiosità si trasmetta anche a chi ascolta e li porti a scoprire altri artisti e storie.

Hai mai pensato di scrivere un intero album blues con brani originali?

Ho scritto alcuni brani blues in passato, e ne ho uno nuovo che uscirà su un mio disco solista. Dopo quello… chissà?

Se potessi suonare solo uno di questi brani dal vivo, in un piccolo club davanti a venti persone, quale sceglieresti — e perché?

Hmm… Domanda difficile. Mi piacciono tutti, davvero. Ma se proprio devo scegliere, direi Black Betty!!!

E per concludere con una curiosità: chi è il vero “piantagrane” nella band?

Credo di essere io il burlone… Ma se devo scegliere il “vero casinista”, dico David Lowy… Quel tizio non combinerà mai nulla nella vita… (ride)

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