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Con il loro quarto album in studio, i finlandesi Shiraz Lane compiono una notevole trasformazione nel suono mescolando in modo audace le loro radici glam/hard rock con ancora più moderne influenze pop-metal e una produzione cristallina gestita da Per Aldeheim (Def Leppard, H.E.A.T, Pain). Il risultato finale è quindi un tocco molto chiaro nella possente e contemporanea resa finale, che li allontana un po’ dai famosi anni ’80 da cui comunque attingono ispirazione. In Vertigo, troviamo ancora la solita e consolidata formazione composta dal cantante Hannes Kett, dai chitarristi Jani Laine (solista) e Miki Kalske (ritmica), dal bassista Joel Alex e dal batterista Ana Vilkkumaa. Sicuramente questo è un nuovo e audace capitolo della loro carriera, ma forse troppo commerciale rispetto al passato, in quanto lo scopo ormai dichiarato dai vichinghi è quello di inserirsi in mercati più remunerativi rispetto al tradizionale hard rock. Lo si sente con l’hair metal dell’iniziale e corale “Stone Cold Lover”, dove si ode molto l’influenza dei mitici Mötley Crüe per quanto riguarda il ritmo, ma il ritornello molto melodico e infarcito di potenti campionatori spiazza un po’ sulla percezione metal del brano. Solo gli incisivi e spigolosi riff delle chitarre elettriche riescono a potenziare il groove del pezzo, soprattutto nel prolungato e travolgente assolo di chitarra dell’ottimo Laine. Dopo questo bel biglietto da visita, si odono ancora in prima piano gli effetti dei sintetizzatori e la pulitissima e affilata ugola di Kett nel successivo “Dangerous”, brano pieno di ammalianti armonie e con un orecchiabile ritornello che porta a cantarlo già dal primo ascolto. Con la vivace e cadenzata “The Ray Of Light”, gli scandinavi si buttano a capofitto sul puro AOR, avvolgendo l’ascoltatore dalla calda timbrica vocale del singer finlandese, da leggere chitarre elettriche e da una battente sezione ritmica. Insomma, gli Shiraz Lane spaziano cercando sempre di mettere un pizzico di allegria e di sentimento nei loro pezzi soprattutto nell’inserimento di cori melodiosi e sintonizzati che si alternano a parti compositive più robuste e altezzose tipiche del glam americano. Purtroppo, esagerano nell’inserimento di troppi suoni pop, come nella canticchiabile e melodica “Live A Little More”, dove i synth condizionano parecchio l’aspetto rock della band facendo storcere il naso ai puristi del genere. È vero che siamo nel 2025 e il suono deve essere molto attuale, ma cercare in alcuni brani solo il consenso radiofonico fa perdere punti a un disco dove le buone melodie e gli spunti non mancano affatto. Lo stesso discorso si può fare per il prosieguo in “Babylon”, una traccia per certi versi originale che mescola divertimento, uno spiccato ritmo latino e il solito pop rock che penalizza ancora le due interessanti sei corde elettriche. Per fortuna e in generale il platter si salva perché ricco di melodie orecchiabili e pungenti inni, come nel caso della robusta “Plastic Heart”, del rock funk di “Come Alive” e dell’AOR-oriented “Brand New Day”, canzoni gradevoli e un pizzico più grevi. Nella prima aleggia l’atmosfera melodiosa degli svedesi H.E.A.T., con questa volta in evidenza le dure e aggressive chitarre di Laine e Kalske e dei penetranti cori che lasciano davvero senza fiato. Nella seconda gli inquietanti arrangiamenti sono sostenuti da una battente sezione ritmica che è sovrastata solo dalle leggere e melodicissime corde vocali di Hannes e dai soliti campionatori, che frenano in parte la forza delle chitarre che si rifanno nei brevi e concisi assoli che adornano la song. Nella terza invece il ritmo galoppante e l’atmosfera rilassante culminano in un gradevole e mieloso ritornello, che ricorda in generale il sound degli Eclipse ma che strizza ancora e troppo l’occhio alle radio. Piace la voce e l’interpretazione del bravo Hannes Kett, che nel gruppo è una presenza carismatica e distintiva. Anche gli altri membri dimostrano le loro abilità e le loro capacità, come in “Sayonara Love”, dove sviluppano degli indovinati giochi di tastiera e degli oscillanti cori che si traducono in un vero e proprio desiderio di essere il più possibile futuristici, ma anche molto mainstream. Certo, per certi versi gli Shiraz Lane comprovano personalità nella loro strana e particolare evoluzione, ma probabilmente se scegliessero di essere una “Boy Band“, come accadeva negli anni ’90, buttandosi decisamente e definitivamente sul pop, avrebbero più successo e più soldi. Disco, nel complesso, deludente se si raffronta a ciò che hanno fatto di buono in passato.



