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I prog metal brasiliani Jack The Joker debuttano per Frontiers Music con The Devil To Play In The Backlands, prodotto da Adair Daufembach (Angra), provando a farsi conoscere ad un pubblico più vasto ed uscire così dai propri confini nazionali. Questo secondo disco mostra a pieno titolo il sound duro e complesso di una formazione che in questa occasione prende ispirazione dal romanzo di João Guimarães Rosa del 1956 intitolato proprio: Il diavolo da pagare nelle terre remote in cui il poeta esplora le terre metafisiche, dove la volontà umana si scontra con le forze crude della natura. Questa storica narrazione racconta un viaggio esistenziale attraverso l’aspro entroterra brasiliano, un paesaggio impervio punteggiato da una vegetazione spinosa e aggrovigliata. Quindi, gli artisti offrono un paragone con la loro musica che già dalle prime note presenta un territorio di non facile ascolto fatto di tempi intricati, corposi giri di chitarra e sinuosi assoli chitarristici. Ascoltando le prime note di “Devir” si ode immediatamente un paesaggio sonoro prog fatto di vorticosi assoli tastieristici e chitarristici seguiti da una vibrante sezione ritmica. Se non ci fossero parecchi cambi di tempo e il cantante non cantasse in modo teatrale saremmo di fronte ad un brano di puro heavy o di genuino death metal. Sinceramente gli acuti e i brevi ed aspri growl del fenomenale Raphael Joer incutano paura e timore ma non portano al di fuori del contesto progressive su cui principalmente si basa la formazione.
Descrivendo il nuovo brano, la band dichiara: “Ispirata dalla siccità del 1915, immortalata da Rachel de Queiroz nei suoi scritti, questa canzone trasforma il paesaggio aspro e arido in una metafora di resilienza. Tra la fame e il terreno screpolato, si leva una voce che si rifiuta di dire addio”.
La situazione cambia drasticamente già a partire con la seconda “Between The Sky Lines”, in cui i carioca mettono da parte il puro progressive puntando selvaggiamente a ritmi più incalzanti e melodici ma anche a momenti alquanto pacati e riflessivi culminanti in un tirato e orecchiabile ritornello. Praticamente mischiano le carte in tavola. Attenzione, siamo ancora in atmosfere sperimentali con un suono moderno e melanconico, come nel caso della successiva, “Denied”, un crescendo costante di potenza e durezza in cui ancora il cantato gutturale e pulito del cantante si mischiano a vicenda, nel corso della composizione, in un contesto strumentale dove i quattro giovani inseriscono elementi tipici della loro terra. Insomma, come fecero i grandi Sepultura in Roots e i fantastici Angra in Holly Land nel lontano 1996 che fecero da precursori per questo tipo di contaminazioni locali. Prendendo quindi spunto dalle recenti dichiarazioni dei componenti dei Jack The Joker, dato che i generi inseriti sono distanti anni luce da una nostra specifica conoscenza, il loro sound combina oltre al già citato prog, il tradizionale heavy e il death metal anche tante venature di maracatu, forró, baião e frevo. Tutti generi e ritmi latini che mischiati con il metal, forse aprono una strada per il combo gialloverde o un clamoroso autogoal che solo il tempo ci potrà confermare o smentire. Intanto la tellurica e galoppante “XV” mette da parte tutti i pensieri possibili sull’originalità di questo prodotto devastando, già dalle prime note, i timpani per poi virare ad un suono più basso e distorto e a degli arpeggi chitarristici e tastieristici inquadrati dall’ugola rauca e incazzata del singer. Siamo di fronte ad un possente heavy metal combinato con ritmi latini e jazz ma anche con tante atmosfere progressive che esaltano il virtuosismo di tutti e quattro gli artisti ma che giocano poco sulla melodia. L’armonia appare nei momenti più leggeri intrattenuti da un’arpeggiante chitarra classica, come anche nel proseguo della triste “Neblina”, interpretata in modo quasi rassegnato dalle corde vocali del vocalist sudamericano e ricca di alternati e distorti giri di chitarra. Nonostante questi strani intrecci e la tanta confusione di generi, il gruppo brasiliano riesce a sfornare buone e dure canzoni capaci di smuovere l’animo di qualunque metalhead del mondo. Per non farsi mancare nulla i musicisti in “Sun” partono in quarta con una valanga di impazziti campionatori che introducono un momento ambientale e una voce pulita e melodiosa sostenuta da una maestosa orchestrazione, da una raffica di spigolosi riff chitarristici e da un maligno cantato gutturale da parte del ribelle frontman della band. Il vortice prog e i cambi repentini di tempo sono poi la tempesta perfetta per alzare velocemente i ritmi e dare più spazio ad una irrefrenabile sezione ritmica che li avvicina molto ai britannici Haken. L’inizio e alcune parti di “You Where I Belong” sembrano poi essere influenzate dai maestri Dream Theater ma è solo un depistaggio perché Felipe Faco e Lucas Colares alle chitarre, Gustavo Pinheiro al basso e Vicente Ferreira batteria si esibiscono, sorprendentemente, in sonorità funk metal con l’aggiunta di un pizzico di fusion durante gli assoli chitarristici del pezzo. Anche la devastante “Thousand Witnesses” ha un diabolico e coinvolgente groove sotto le disperate urla e gli acuti dell’instancabile Raphael Joer. Qui le sei corde elettriche e la sezione ritmica costruiscono un muro sonoro invalicabile e trascinante che distrugge tutto ciò che incontra anche se il forzato growl sciorinato dal frontman carioca non sempre convince del tutto rispetto alla splendida e pulita voce che possiede. L’incantevole “Cabaret” dimostra come la musica brasiliana, soprattutto per quello che riguarda l’utilizzo di basi ritmiche ispirate a cadenze ballabili, faccia ormai parte integrante della musica di questa imprevedibile band. Qui non si ode solo qualcosa di bizzarro o del professionale tecnicismo strumentale ma anche tanta melodia, allegria e passione. La penultima e delicata “Saudade”, caratterizzata da arpeggianti chitarre e dal fresco e chiaro cantato di Joer è una song che in certo senso rallenta, nei primi minuti, un po’ i ritmi non abbandonando del tutto la sperimentazione costante di una band coraggiosa e creativa che nel basso e nella batteria ha il suo motore pulsante. L’ultima e conclusiva “Hope”, molto vicina allo stile dei Synphony X, chiude con un’atmosfera leggera, drammatica e atmosferica disturbata solo dai cadenzati e duri riff chitarristici delle due chitarre elettriche. Anche qui il robusto metal è unito brillantemente al jazz e al fusion con l’accompagnamento dei soliti campionatori e della pulitissima e adatta voce del bravo Raphael. Traccia comunque morbida, cupa e melanconica che per tredici lunghi minuti ripercorre in lungo e il largo ciò che si è sentito di buono in tutto il disco. I Jack The Joker sono veramente una forza della natura dimostrando una grande sinergia e una sapiente alchimia che mette tutti sullo stesso piano. Per certi versi sono ancora alla ricerca di un proprio e unico stile ma sono sulla buona strada. Forse meno esperimenti sugli arrangiamenti e meno combinazioni di generi potrebbero aiutarli a trovare la via maestra e a farli diventare qualcosa di unico e importante da esportare in tutto il mondo.