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Quarto album in studio per i francesi Rising Steel, che si ripresentano con il loro coerente sound fatto di heavy metal, thrash metal vecchia scuola ed elementi della NWOBHM degli anni ’80, mantenendo sempre la stessa formazione con Steel Zard alla batteria, Tony Steel e Steff Leadmaster alle chitarre, Stone Warrior al basso ed Emmanuelson alla voce. Legion Of The Grave non presenta sorprese, tranne per una più incisiva e grezza energia che incattivisce un pizzico di più il quintetto transalpino, che per l’occasione si affida al mixaggio degli svedesi Staffan Karlson e Rickard Bengtsson, noti per il loro lavoro con gli Arch Enemy e i Meshuggah e alla masterizzazione del finlandese Mika Jussila. L’atroce e inquietante “Betrayer” apre la battaglia, abbinando un suono thrash e power guidato dall’urlato cantato del singer francese. I riff spigolosi e robusti dei due chitarristi sono coinvolgenti, ma anche capaci di settare dei ritmi più pacati e tirati, soprattutto quando danno poi spazio agli assoli chitarristici di Tony. Le influenze sonore degli Iron Maiden, dei Saxon e dei Judas Priest si odono già dalle prime note di “King Of The Universe”. Qui i devastanti riff chitarristici e le potenti linee di basso, con alle spalle una potente batteria, trascinano velocemente l’intera canzone, tranne nei ritornelli dove la band rallenta puntando a toni più gradevoli. La densa e cadenzata “Black Martin”, rallenta l’esecuzione strumentale ma non la robustezza degli accordi che sono sempre possenti, al limite del doom metal e verso la fine anche molto ritmati grazie all’ottima interazione tra le due chitarre elettriche, che aggiungono un tocco “classico” alla traccia. Il punto più alto del disco si raggiunge nella massiccia titletrack, “Legion Of The Grave”, pezzo di tradizionale heavy metal senza compromessi e senza fronzoli dove i musicisti riescono ad equilibrare la forza con la melodia. Si ode soltanto, in alcune parti, un tocco di puro thrash metal, sia vocalmente per via, in certi frangenti, del brutale cantato gutturale di Emmanuelson, sia strumentalmente, specialmente per quanto riguarda la serrata sezione ritmica. Nella successiva, “Nightmare” i ragazzi continuano a privilegiare un duro groove rispetto alle abilità tecniche, facendo in modo che l’approccio alla song, da parte dell’ascoltatore, sia il più diretto possibile. Anche qui ma pure nel prosieguo della raccolta, la formazione mantiene la stessa formula vincente, ovvero un coinvolgente giro di chitarra introduttivo, poi la strofa, il ritornello, un micidiale assolo di chitarra e una ripetizione dei riff di chitarra innescati all’inizio. Soprattutto gli armoniosi e potenti assoli si concentrano su fraseggi melodici tipici del famoso periodo della NWOBHM ottantiana, che tanti proseliti fece e fa tuttora. Nella parte centrale dell’opera la power “Venomous” e la melodiosa “Dead Mind” mantengono la “rocciosità” dei brani precedenti, ma sono troppo prevedibili, familiari e senza spunti particolari, a parte qualche cambio di tempo, che non attira l’attenzione o spezza la monotonia. Solo l’oscura e orientaleggiante “Messiah Of Death”, sveglia dal torpore con il suo aggressivo speed thrash metal guidato dalla selvaggia e crudele ugola del cantante. Il prolungato assolo di chitarra elettrica eseguito da Steff Leadmaster è ammaliante e trascinante, così come la ritmata e possente parte finale del pezzo. Nella parte conclusiva l’album rimane sempre ancorato a dei mid-tempo indirizzati da taglienti ed efficaci giri di chitarra, come in “Trapped In A Soul’s Garden”, in cui si viene catapultati verso un sound classico di puro e modulato heavy alla Metal Church, per intenderci. I penetranti riff chitarristici di Steel e Leadmaster e i frenetici ululati del vocalist continuano ad essere devastanti, ma sempre inseriti in un melodico e adrenalinico refrain che piace perché trasmette vigore e tanta energia positiva. L’ultima “Night Vision”, nei primi secondi, sembra offrire un po’ di respiro, ma è solo un momento, perché la sezione ritmica capitanata dalla martellante batteria di Zard comincia a picchiare di brutto, seguita da un galoppante basso e da robusti giri di chitarra guidati dalla solita roca e cupa voce di Emmanuelson, che sembra provare ad imitare il mitico Bruce, ma senza successo. Infine, chi ama il tradizionale heavy ottantiano con piccoli elementi thrash può sinceramente orientarsi verso questo discreto lavoro, che pecca sempre di originalità e personalità ma che dimostra come i Rising Steel siano degli ottimi musicisti, con una grande alchimia tra di loro.



