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I Motörhead fanno parte della struttura delle cose. Come l’acqua. Come la farina. Come tutto quanto ci è più familiare. Non occorre aver letto qualche antesignano romanzo sui viaggi nel tempo e gli effetti delle interferenze nel e col passato per arrivare a comprendere che, senza questo gruppo, una certa fetta di ciò che quotidianamente ci nutre e conforta – tutte le frange estreme del metal e del punk e le susseguenti fusioni di questi due universi – semplicemente non esisterebbe nel modo in cui esiste oggi. Facile. Limpido.
Non diventarono mai dei cialtroni, degli attorucoli di bassa lega. Tutto di loro, di Lemmy, fu frutto di onestà; verso sé stessi e verso la gente comune. Ciò valeva sia sopra il palco sia fuori dal palco. Ma parliamo di quel sopra. Sì, perché questo è solamente l’ennesimo disco dal vivo dei Motörhead ed è lì sopra che diedero il meglio di sé. Sta tutto in quel VIVO, in quella vita per la quale combattevano a colpi di morte. Colpi più forti della morte; certamente, più fragorosi.
Questi nastri dimostrano, una volta di più, che non c’era spazio per la plastica sopra quelle tavole. Nessun discorsetto preparato ad hoc – al di là delle immancabili presentazioni in vecchio stile, certo. Altrettanto certamente, va quasi da sé che ci saranno sovraincisioni e snaturamenti varî ma, coi tempi che corrono, quest’osservazione è praticamente fuffa.
Purtroppo i loro concerti si erano ridotti di durata già da alcuni anni precedenti questo 23 aprile 2012 e avevano smarrito parte della loro bestiale carica – ed è qui che risultò utile l’orologio atomico che alberga nelle articolazioni di Mikkey Dee, uno strumentista che non emana più calore di un Calippo gustato su Oberon ma che non sbaglierebbe un colpo neppure sotto una sassaiola da stadio.
Quella sera a Berlino si iniziò col singolo estratto dall’album che stavano promuovendo. Travolto dalla bolgia, sulla quale solo il DVD potrà forse far luce, il fortunato pubblico avrà avuta la presenza di spirito di riconoscere, tra le altre, le vecchie “Stay Clean”, “Metropolis” e (sempre emblematica) “Over The Top” più una di quelle che ti fanno per forza venir voglia di spaccare tutto: “Rock It”. Ci stettero bene pure il divertissement “String Theory”, appannaggio di Phil Campbell posto a metà scaletta per dar respiro a chi stava da qualche tempo pagando decenni di eccessi fisici, e l’a-solo di batteria inserito in coda a “The One To Sing The Blues” (stessi motivi). “You Better Run” e “Going To Brazil” si incaricarono di fugare eventuali dubbi dei presenti circa origini e passioni. Poi “Killed By Death”, uno dei primi brani che Campbell suonò e scrisse col gruppo, e, penultima, l’immortale “Ace Of Spades”.
“Overkill” è finita da tre minuti. C’è chi sta passeggiando al camerino con la sigaretta in bocca, chi cerca la scarpa destra, altri forse una bottiglietta d’acqua. Qualcuno è ancora lì, immobile, a fissare inebetito la magia che viene smontata. Grazie di tutto, vecchi amici. Grazie di aver reso la nostra vita, a tratti, degna di essere vissuta.
Tracce:
01. I Know How To Die
02. Damage Case
03. Stay Clean
04. Metropolis
05. Over The Top
06. Doctor Rock
07. String Theory
08. The Chase Is Better Than The Catch
09. Rock It
10. You Better Run
11. The One To Sing The Blues
12. Going To Brazil
13. Killed By Death
14. Ace Of Spades
15. Overkill
Formazione:
Phil Campbell: chitarra, voce
Mikkey Dee: batteria
Lemmy Kilmister: voce, basso