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Quando, negli anni ’80, Inghilterra, Stati Uniti e Germania furoreggiavano nel metal, il Belgio non è stato a guardare, potendo contare su interessanti nomi quali Acid, Killer, Warhead, Breathless, Crossfire e questi Ostrogoth, probabilmente i più noti e melodici del lotto. Nati nel 1980, dopo la solita gavetta a suon di demo, ottengono un contratto con la Mausoleum e pubblicano un EP nel 1983 e, a ruota, uno split album coi connazionali Killer e Crossfire, per poi debuttare con un lavoro completo l’anno dopo. Il metal del gruppo appare influenzato pesantemente da quello di colleghi britannici (Maiden e Angel Witch su tutti), ma dotato di una buona vena melodica. Dopo il buon Too Hot del 1985, che, nonostante una copertina in stile glam, non presentava però variazioni a livello musicale, il gruppo decide di introdurre un tastierista nel proprio organico e nel 1987, sempre per la Mausoleum, dà alle stampe la terza e ultima fatica in studio, questo Feelings Of Fury, oggi ristampato dalla High Roller. Il suono è più pulito e cangiante, anche se sempre di metal si tratta e, dopo un’intro atmosferica, l’album esplode con “The Introduction” (no, non è un gioco di parole), pezzo dal piglio epico e feroce, col vocione di De Wint in evidenza. La maideniana “Samurai” fa ancora meglio, grazie al buon ritornello e all’ottimo lavoro delle due chitarre e le melodiche “Love Can Wait” e “We Are The Ace” rasentano l’hard-rock, tramite cori e ritmi meno serrati.
La rocciosa “The Hunter”, che si mantiene su tempi medi e rimembra certi stilemi del metal statunitense, risulta una buona palestra per De Wint, che qui dà prova della propria estensione vocale, mentre “Get Out Of My Life” torna ad abbracciare il metal, anche se risulta meno riuscita e sin troppo ripetitiva.
La lunga “What The Hell Is Going On”, introdotta da un caldo “Oooh Yeah!”, è una sorta di blues metallizzato, sensuale e nel contempo massiccio, con tanto di accelerazione sul finale, dove si trasforma in una scheggia metal leale e corrosiva, caratterizzata, ancora una volta, dall’ugola al vetriolo di De Wint, probabilmente uno dei cantanti più sottovalutati del metal europeo. “Vlad Strigoi”, in chiusura, è un altro esempio di metal veloce e ben congeniato, condito da begli assoli e stacchi al fulmicotone.
Ottimo album di metal ottantiano, con le tastiere a dare un po’ di ariosità in più che in passato, ma sempre suonato con un certo impeto: dimenticati troppo in fretta, gli Ostrogoth avevano sicuramente ottime potenzialità, più di tanti colleghi sin troppo celebrati.
Gioiellino da riscoprire.