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Un vessillo di ghiaccio in lento disfacimento, a simboleggiare la natura effimera delle definizioni di genere, i cui confini si dissolvono all’emergere di una nuova consapevolezza, libera dai pregiudizi e dalle costrizioni. È il leitmotiv di un’opera audace sin dalla veste grafica, un terzo atto che sublima le virtù passate dei Dool, già spintisi fino ai cancelli dell’Eden nel precedente, mistico Summerland (2020).
Una faccenda personale per Ryanne van Dorst, che dalla sua intersessualità non ha tratto solo dolore e smarrimento, ma anche una sensibilità fuori dal comune e una creatività altrettanto trasversale. Per dar forma a ciò che forma non ha, occorre scrollarsi di dosso stereotipi ed etichette pronte all’uso, lasciando che siano le note a cantar storie di trasformazioni proibite, a confessare metamorfosi indicibili.
Aiuta, non poco, aver ricevuto in dote una voce portentosa, che ora produce il fragore del tuono, ora ammalia con languide effusioni, in un’ambivalenza che attribuisce pienamente senso alla fluidità di cui si è fatta, per natura, fiera ambasciatrice. Una presenza che trasuda carisma, un’anima inquieta attorniata da un gruppo di musicisti ispiratissimi, cittadini di quel mondo liquido da cui i Dool sono emersi, nove anni fa, sui resti di The Devil’s Blood e Gold; una realtà in cui il suono è sempre volubile, connesso a percezioni post-punk e progressive, a folgorazioni post-rock e folk, così come a più grevi umori sabbathiani.
Le tre chitarre si spartiscono gli incarichi: i frequenti arpeggi, da sempre fulcro dei radi intrecci melodici, s’adornano di riflessi metallici; i riverberi psichedelici si caricano di elettricità, e sfumano in atmosfere blu tenebra che tingono di doom i passaggi ad alto tasso di testosterone, insinuandosi più in profondità ad ogni ascolto; gli assolo sono evocativi, chiose al testo mai invadenti.
Dall’assalto all’arma bianca di “Venus In Flames” sino all’epilogo rarefatto (doom-gaze?) di “The Hand Of Creation”, The Shape Of Fluidity dispensa razioni di pura estasi metallica, senza frapporre ostacoli al flusso copioso delle emozioni. Il segreto risiede nella capacità di far scorrere assieme con fluidità momenti semi-ballabili – in cui riaffiora la vena darkwave che ha indirizzato i primi passi degli olandesi –, bordate di hard psichedelico e attimi di quiete surreale dal piglio cantautorale: solo in tal modo le dissonanze strategiche, le pennellate elettroacustiche e gli arrangiamenti più raffinati (prezioso, ancora una volta, il violino) consentono di mantenere un livello di tensione sempre consono a una narrazione tanto sentita quanto magneticamente fluttuante.
Sembrava impossibile, ma ce l’hanno fatta. La fluidità non è mai stata così solida.