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Stu, che delusione!
Non che abbia il diritto di dare del tu al dotato e poliedrico chitarrista australiano Stu Marshall, che ho ‘conosciuto’ nella reciproca gioventù con i mai dimenticati Dungeon, e che oggi è impegnato in almeno dieci progetti differenti… ma l’ultima fatica dei suoi Empires of Eden è francamente sottotono. Un peccato, davvero: ho seguito la band a corrente alternata e mi sono sicuramente perso qualcosa, ma Reborn In Fire è un disco che ancora sento spesso… questo nuovo Guardians Of Time, che sancisce il ritorno di questo progetto dopo quasi dieci anni di silenzio, non sfonda e non brilla nonostante l’ormai canonico (ma sempre impressionante) parterre di star coinvolte.
La opener nonché titletrack, stranamente, suona un po’ spenta: un mix abbastanza ordinario di power e hard rock, interpretata in modo non stellare da Rob Rock, con dei suoni di batteria molto compressi e arrangiamenti essenziali. “When Will It End” è un hard rock morbido, che nulla ha a che spartire con la successiva “Mortal Rites”, una bordata power/thrash veloce e incessante. Con “The Inner Me”, brano di buon hard rock virato Masterplan epoca di Meo, finalmente si ragiona, ma subito si ricade con “Stand United”, dove è deficitaria la prestazione canora di Tony Webster.
Forse anche per questo ha un certo fascino lo strumentale “Arabian Nights”, meno orientaleggiante di quanto il titolo lascerebbe pensare; verso la fine della tracklist si difende abbastanza bene il mid-tempo ‘molleggiato’, che alterna qualche elemento addirittura bluesy con accenni gotici, “The Devil’s Only Friend”. L’energica “Baptise In Hell” è presente in due versioni: il buon ritornello è esaltato in entrambe, ma forse la take con più tastiere e in versione leggermente più power, in cui intervengono ben tre cantanti e due chitarristi della scena australiana, suona meglio.
Un peccato che il disco presenti diversi difetti e poco mordente, ma qualche volta capita anche ai migliori.