DREAM THEATER – Parasomnia

Titolo: Parasomnia
Autore: Dream Theater
Nazione: Stati Uniti D'America
Genere: Progressive Metal
Anno: 2025
Etichetta: InsideOut

Formazione:

James LaBrie – Voce
John Petrucci – Chitarra
Jordan Rudess – Tastiera
John Myung – Basso
Mike Portnoy – Batteria


Tracce:

01. In The Arms Of Morpheus
02. Night Terror
03. A Broken Man
04. Dead Asleep
05. Midnight Messiah
06. Are We Dreaming?
07. Bend The Clock
08. The Shadow Man Incident


Voto del redattore HMW: 7,5/10
Voto dei lettori: 7.3/10
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La sorpresa e la curiosità che ruotano intorno a Parasomnia passano senza dubbio per il grande ritorno, dopo quindici anni, del figliol prodigo Mike Portnoy negli storici Dream Theater. Ovviamente questo è stato, per lungo tempo, il desiderio di tutti i supporters, data la grande stima nei confronti del batterista statunitense, uno dei fondatori della band di Boston che con la sua tecnica e la sua energia ha sempre dato al proprio sound un segno unico e distintivo. Dispiace per il rimpiazzato e ottimo batterista Mike Mangini (ex Extreme), che non ha inciso a livello compositivo nelle ultime cinque uscite discografiche ma che ha dato comunque un grande contributo soprattutto dal vivo. I Dream Theater, dopo una pausa relativamente lunga di tre anni e mezzo dal penultimo A View From The Top Of The World, ritornano con un nuovo album che dovrebbe sancire la rinascita dopo una serie di alti e bassi, ma che a conti fatti non cambia di molto la linea artistica degli ultimi tempi. Nell’album si ascolta la tipica musica della band degli ultimi dischi senza aggrapparsi agli iniziali esordi e con l’inserimento di qualche fattore non proprio convenzionale alla loro collaudata formula. A dire il vero questa nuova fatica, dopo i leggendari dischi Awake e Train Of Thought, è quella più oscura della loro discografia, riprendendo il discorso lasciato in sospeso dopo il decimo album Black Clouds & Silver Linings. La proposta verte sempre verso un prog metal maestoso, melodico e virtuoso con uno sfoggio di superlative tecniche strumentali che lasciano sempre a bocca aperta. Praticamente siamo di fronte ad una caratteristica pubblicazione dei Dream Theater, che a differenza del passato continuano a premere molto sulla durezza del suono andando ancora verso più forti sonorità metal e dark, allontanandosi così dalle origini e aggiungendo anche piccoli elementi di generi diversi.

Il concetto dell’album si basa su temi incentrati su sogni e disturbi del sonno quali insonnie e sonnambulismo, ma anche fantasy con accenni horror relativi ad un fantomatico e protagonista uomo ombra. Il tutto in un miscuglio di momenti complessi fatti di pazzeschi assoli e armonie strabilianti, come nell’iniziale e strumentale, “In The Arms Of Morpheus”, brano cinematografico e dalla musicalità trionfante e altalenante che introduce il curioso ascoltatore all’interno di questo pauroso e inquietante concept. La notte è alle porte ed è ora di dormire ma in lontananza si odono delle sirene della polizia e dei suoni sgradevoli che dopo due minuti di effetti sonori introduttivi esplodono dando il via alla battente batteria di Portnoy e alla strimpellante chitarra elettrica di Petrucci. L’introduzione soave delle tastiere e l’aumento del ritmo del pezzo alzano la tensione sonora che abilmente viene trasformata dal quintetto in un’epica melodia guidata dalla diabolica chitarra di John.

Comincia così l’atmosfera sinistra dell’album, che prosegue con il solido e feroce singolo “Night Terror”, dall’accattivante e trascinante ritornello. Qui ci si sente immersi in un contesto propriamente distintivo del combo, dove i potenti, familiari e spettrali synth di Rudess si ingarbugliano alla perfezione con la tellurica batteria e con gli intermittenti e quasi thrash riff chitarristici di John. La voce chiara e pulita di LaBrie rassicura e guida l’armonia e il ritornello super orecchiabile della canzone, che presenta molti cambi di tempo e diverse atmosfere acustiche imperniate su una mielosa melodia. La fresca e tranquilla timbrica vocale di James è accompagnata da una maggiore enfasi sui cori forniti da Portnoy e Petrucci dando così, in generale, alle tracce della raccolta un’atmosfera più live e più dinamica del solito. I passaggi strumentali nella seconda metà della canzone sono lunghi ma Portnoy, Petrucci, Rudess e Myung si fanno apprezzare per le loro grandi abilità, soprattutto in un contesto molto complicato. I Dream Theater non guardano però indietro al loro illustre passato in quanto, pur privilegiando un refrain melodico, in certi momenti picchiano duro verso un suono più forte ma sempre riuscendo a far emergere il loro inconfondibile stile. Lo scopo di questi fantastici musicisti è divertirsi e suonare apertamente quello che vogliono senza però tradire lo zuccolo duro dei propri e devoti fan sparsi in tutto il pianeta. Insomma, non devono inventare più nulla! Ne è la dimostrazione la successiva, e non convenzionale, “A Broken Man”, che parte in quarta con il giro di chitarra più duro della raccolta, sostenuto dalle assordanti pelli di Mike e da un tappeto di frastornanti note tastieristiche. Il primario refrain, grazie alla chitarra, sembra esplodere da un momento all’altro ma alla fine decelera prima che la traccia prenda quota e robustezza. L’ugola del cantante canadese è forte e allo stesso tempo vellutata ed è accompagnata da un suono ambientale irregolare in cui l’amico Rudess si sbizzarrisce in assoli pirotecnici ed estesi che passano attraverso tre diversi suoni di synth. I campionatori competono con gli accordi solisti della chitarra elettrica dell’amico John, capace di tuffarsi in interessanti passaggi blues e metal conditi da particolari effetti che lasciano spiazzati ed esterrefatti da tanta bravura. La cosa impressionante è l’abilità dei ragazzi di creare un nuovo tema sonoro durante l’esecuzione del pezzo e di ritornare facilmente al riff principale di apertura come se nulla fosse. Gli sdolcinati sintetizzatori ammorbidiscono in parte i coinvolgenti e vigorosi giri di chitarra di Petrucci, creando momenti ambientali più tranquilli e armoniosi, che confluiscono in un trascinante e mieloso ritornello dove la melodiosa e convincente timbrica del singer rapisce l’attenzione suscitando non poche emozioni.

Vi ricordate i virtuosismi dei Liquid Tension Experiment di Portnoy, Rudess e Petrucci dai suoni jazz e blues? Ecco, qui si trova tutto questo mischiato brillantemente al progressive metal caratteristico dei Dream Theater e il risultato è veramente soddisfacente. Ci troviamo nel bel mezzo dell’opera è la paurosa notte è ancora lunga e tormentata. Un’introduzione silenziosa, con in primo piano la “caramellósa” melodia sentita nel primo brano del platter, lascia improvvisamente il posto ad un miscuglio strumentale che parte gradualmente con l’aggancio convulso delle corde elettriche di Petrucci. “Dead Asleep” continua con una scarica di rullanti e con una velocissima frenesia esecutiva della chitarra elettrica del maestro statunitense. Entrambi gli strumenti sono accompagnati dalla potenza tastieristica di Rudess aprendo insieme e possentemente le danze prima che una soave melodia porti nel vivo della composizione culminante in un assolo tastieristico e ad un intermittente riff di chitarra. La parte centrale della song è uno sfogo di virtuosismi chitarristici con l’esecuzione di scale vorticose e continui cambi di tempo gestiti brillantemente da una formidabile sezione ritmica, con Myung sopra gli scudi e con l’abilissimo Portnoy che percuote senza tregua i suoi indistruttibili tamburi. La voce di LaBrie sembra solo una comparsa di una perfetta sceneggiatura dove l’attore principale è la musica armoniosa di un gruppo formidabile composto da strumentisti di livello mondiale. Quello che colpisce è che Parasomnia sembra una versione levigata delle produzioni realizzate negli ultimi dieci anni con belle melodie ma poche idee rispetto al passato. Ci sono comunque dei cambiamenti, come il fatto che LaBrie si limiti negli acuti o che il rientrante Portnoy non canti più di supporto con il suo vocione inconfondibile, ma si attenga nei cori a seguire la melodia in modo più nitido. “Midnight Messiah” conferma ancora queste piccole novità, ma sinceramente è troppo poco rispetto all’attesa di questo disco da parte del pubblico e della critica in generale. La traccia parte con arpeggi puliti e alcune voci sovrapposte che piano piano inseriscono dei cori gregoriani e un robusto giro di chitarra elettrica seguito dalla solita assillante e tellurica sezione ritmica con a capo lo straripante Mike. Il cantante mantiene anche qui la stessa tonalità, cercando di far decollare un ritornello che, in questo caso, non sembra essere il loro momento migliore e che in definitiva non prende il volo nonostante attinga la sua forza dal genere thrash e dal genere power. John comunque infiamma le sue cadenzate corde elettriche di puro metal mentre Jordan, con le sue fedeli ed impetuose keyboards, crea una stupenda alchimia sonora con l’amico chitarrista. Sotto i colpi dell’abile e micidiale Portnoy, Petrucci raggiunge il clou mostrando le sue enormi capacità soliste, esaltandosi tecnicamente e riuscendo benissimo a non uscire fuori dai binari di questa potentissima song dal piccolissimo sapore AOR ma dal grande cuore metallico e dall’anima particolarmente prog. L’interludio “Are We Dreaming?” fa sentire in lontananza delle campane di una chiesa e una soffice euritmia di organo Hammond che immette quasi subito nell’arpeggiante e inaspettata ballata, “Bend The Clock”, che fornisce, a questo punto dell’opera, un sollievo sonoro significativo. La chitarra acustica innesca le basse e sicure corde vocali del frontman che qui si trova a suo agio e in primo piano su un componimento tipicamente ottantiano e un assolo chitarristico alla Gilmour che risulta alla fine la cosa più interessante del brano. Qui non si può certamente affermare che il quintetto non abbia un’anima e dei sentimenti, perché dimostra di saper scrivere un bel lento, anche se la chiusura in dissolvenza della sei corde elettrica di Petrucci fa storcere il naso. La conclusiva e lunghissima “The Shadow Man Incident”, con un iniziale carillon riprende, per pochi secondi, la melodia di base udita nell’intero concept per poi alzare i toni con la fragorosa chitarra elettrica di Petrucci. Questo è il momento in cui ognuno dei musicisti si sfoga con il proprio strumento mettendo in mostra tutte le proprie qualità esecutive. Prima di tutto ciò l’ascoltatore deve sorbirsi una prima parte lenta e un po’ noiosa che sinceramente poteva essere evitata. Dal settimo minuto in poi il combo americano innalza prepotentemente il ritmo, che ritorna ad essere aggressivo, adrenalinico e super melodioso con la sottile voce di James che riesce a trascinare verso un ritornello molto piacevole e coinvolgente. Naturalmente sovrabbondano i cambi di tempo grazie anche alla martellante, profonda e convulsa sezione ritmica capeggiata da due veterani come Jon Myung e Mike Portnoy, con quest’ultimo che offre uno dei suoi migliori riempimenti di batteria di tutto il disco!

Finalmente si odono, dopo ben sette canzoni gli stravaganti e immersivi tocchi di tastiera di Jordan Rudess, che qui liberamente a briglia sciolta esegue i suoi portentosi assoli rispetto alla prestazione sobria e schematica sviluppata nei brani precedenti. La fetta migliore è indubbiamente la sezione jazz del suo magico pianoforte, che riesce a far venire i brividi in tutto il corpo. Idem per il perfezionista John Petrucci che si unisce, in alcuni momenti, armonicamente al suono dell’amico tastierista, dando comunque priorità ai suoi micidiali riff metal e ai suoi complicati e studiati assoli chitarristici. Sicuramente ci troviamo di fronte ad un bel pezzo di prog metal, che bilancia pesantezza e melodia, ma che, nonostante trasudi talento e tecnica sopraffina da tutte le note, non ha un’identità musicale tale da farla emergere nell’enorme discografia della band. Probabilmente i navigati Dream Theater sono diventati ancora più bravi nel suonare rasentando quasi la perfezione, ma hanno perso qualcosa a livello compositivo nonostante in Parasomnia puntino molto sulla riuscita delle canzoni, cercando di trattenere la loro irrefrenabile estrosità musicale. Di certo, l’album non è il migliore della loro lunga discografia, ma piace perché in fondo è sempre un disco con il loro marchio inconfondibile.

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