OPETH + Paatos – 06/10/2025 – Alcatraz, Milano


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OPETH + Paatos
Alcatraz, Milano
6 ottobre 2025

Senza giri di parole, faccio subito outing: mai visti gli Opeth dal vivo prima. Complice una scarsa considerazione iniziale per il gruppo svedese (da leggersi come “un tempo mi provocavano l’orticaria, o almeno così pensavo“) e successivamente il classico pensiero “ma sì, li rivedrò ancora, tanto passano spesso”, eccoci nell’anno Domini 2025 ad assistere al mio primo evento, che li vede gruppo principale, per un tour europeo di una dozzina di date fra la fine di settembre e la metà di ottobre in compagnia dei conterranei Paatos (non ho ben capito la pronuncia, secondo la cantante Petronella Nettermalm, è tipo “petos”, il che fa molto ridere, ma Akerfeldt l’ha pronunciato diversamente, e qualche dubbio viene ricercando brevemente in rete… ma non è fondamentale, solo una scusa per riferirsi beceramente al mondo delle flatulenze).
Lunedì sera, Alcatraz: che palle, ancora una volta sono da solo. Come sempre sarebbero venuti tutti i miei amici, ma proprio tutti, se solo li avessi avvisati per tempo… Certo, come no! Chissà quanti si rivedono in queste parole, sbaglio? L’amico paccaro è una piaga ben nota, inutile negarlo.
Il pubblico presente riempie il capiente locale milanese nel primo giorno della settimana, il che ha quasi dell’incredibile ai miei occhi. Non sono al corrente di un eventuale sold out, ma a spanne non mi sembra ci fosse meno gente dello scorso giugno per i Savatage, il che fa comunque riflettere.

Ore 19:45, si attacca precisi: il quintetto svedese d’apertura, che risulta attivo dal 1999 e viene inserito nel calderone progressive rock – tutto sommato nemmeno a torto – ha a disposizione circa tre quarti d’ora per convincere il popolo milanese (o meglio italiano in questo caso, visto che la data in Italia è unica e si è in rappresentanza della nazione). Poco meno di una decina di brani, che puntano a valorizzare la calda e suadente voce di Petronella, più a suo agio a cantare che ad intrattenere il pubblico, e le ovazioni non mancano; di tutti, il batterista Ricard Nettermalm, marito di Petronella, risulta ai miei occhi (anzi, orecchie) il vero mattatore del gruppo, dando una carica in più a brani che… alla lunga stancano; chiedo venia, ma la sensazione preponderante è questa. Non so, sarà che sono in piedi dalle 6:30, e comunque qualche acciacco lo sento, pur essendo giovane dentro e fuori (l’autostima è importante, ricordatelo), ma alla fine il pensiero rimanda a quel noto adagio di Alex Drastico aka Antonio Albanese, che recita più o meno così: “un monuto, due monuti… sette monuti, dopo ti rompi i coglioni“, ovviamente da recitare con un improbabile accento siciliano. Il pubblico dell’Alcatraz sembra non confermare per nulla il mio pensiero, e capita di sentire commenti entusiasti provenire da gente dislocata nelle mie vicinanze: ci sarà un motivo se il gruppo esiste e sopravvive dal 1999, niente da dire quindi. Una scelta strana come spalla, ma evidentemente ponderata.

Una musica popolare, verosimilmente della terra natia dei Nostri, a riempire il tempo che intercorre tra il cambio palco e l’inizio dell’esibizione principale, con gli accorsi che nel frattempo si sono assiepati ancor di più nelle vicinanze del palco; e io che pensavo che sarebbe stato utilizzato il palco piccolo dell’Alcatraz, come quando mi capitò di vedervi eoni fa Overkill o Iced Earth. Non avevo la benché minima idea che gli Opeth potessero avere un pubblico così corposo nelle nostre lande, si vede che non conosco questa tipologia di eventi e chi li frequenta: inutile nascondersi dietro ad un dito, non potevo essere più lontano di così dalla realtà. Prendete la capienza massima del locale ed “avvicinatevi pericolosamente”, avrete ottenuto i presenti in sala.
Alle 21:00 spaccate scatta l’intro di “Paragraph n. 1” (o meglio, “§1”), apertura del nuovo The Last Will And Testament, e parte l’esibizione che accompagnerà il prossimo paio d’ore dell’Alcatraz. Una scaletta che non pesca proprio da tutti gli album degli svedesi, vista la durata media delle loro composizioni, e degli undici brani proposti, il gruppo ne sceglie tre dell’album in promozione (ad onor del vero, ma comunque soggettivamente, non i brani migliori del lotto), una dal grande classico Blackwater Park, un paio da Deliverance, ed una rispettivamente da Damnation, Ghost Reveries, Watershed e Heritage; cito in conclusione quella che – non credo d’esser l’unico – mi sentirei di definire come chicca della serata, ovvero “The Night And The Silent Water”, mentre per scoprire le altre vi basta leggere la scaletta poco oltre queste righe. Prima di attaccare con “§7”, Akerfeldt tiene a rimarcare la natura degli Opeth quale “live band“, sottolineando come non facciano uso di metronomo; questo perché nel brano utilizzeranno una base registrata, una parte narrata di Ian Anderson che compare in The Last Will And Testament, che non avendo il tempo scandito perfettamente da un metronomo potrà anche non essere sincronizzata con il gruppo… esperimento riuscito, e anche non fosse stata perfettamente allineata, sicuramente è stato ben celato.
Lessi tempo addietro che Akerfeldt è un chiacchierone, oltre che persona dall’ego magari non smisurato come taluni, ma comunque ben percepibile (e non manca di ribadirlo a sua volta); si conferma tale, con siparietti tra i brani – il primo dopo il trittico iniziale – e aneddoti vari. Abbiamo il ricordo della calata italica degli Opeth di supporto ai Cradle Of Filth (ogni volta che scrivo o leggo questo nome, vedo Richmond girarsi verso di me, cit.), raccontato per omaggiare un pubblico sempre caldo ed accogliente nei loro confronti come quello italiano; ad onor del vero, spinto dalla curiosità ho cercato su Setlist.fm le date di quel tour, e sebbene il chitarrista e cantante si riferisca al fu Transilvania (“quel posto con le bare sui muri”), il concerto si svolse al Rainbow.
Il secondo aneddoto nasce dai cori da stadio – per inciso, ‘na tristezza totale – che partono all’indirizzo del gruppo, al quale Akerfeldt risponde ricordando la sua breve esperienza calcistica in gioventù e i dolci premi promessi e regalati dalla madre dopo una partita.
Un terzo aneddoto ricorda un tour in nord America di vent’anni prima, durante il quale il batterista dell’epoca, Martin Lopez, lasciò il gruppo nel bel mezzo del tour; fu Gene Hoglan, che faceva parte del “carrozzone” con gli Strapping Youg Lad, a sopperire alla mancanza, imparando i brani sul tour bus, suonando con le bacchette su un cuscino mentre Akerfeldt mostrava i brani sulla propria chitarra non amplificata.
Non manca la “lista della spesa” dei gruppi progressive rock italiani, un pallino dello svedese, che scherzosamente (ma non troppo) asserisce di conoscere meglio di noi (Balletto di Bronzo, Quella Vecchia Locanda, Area, Locanda delle Fate… ovviamente citati con pronuncia a dir poco buffa).
Non mi sono nemmeno accorto del fatto, ma ho letto da resoconti di altri presenti di una nuova “pratica” denominata rowing che vede gruppi di persone sedersi durante un concerto e mimare dei vogatori intenti a remare al tempo di musica: ma sul serio? Sarò “antico”, ma non vedo cosa dovrebbe avere a che spartire con un gruppo come gli Opeth. Mistero, ma forse meglio che rimanga irrisolto.

Ok, concluso il report sugli Opeth… ah, ma dovevo parlare a profusione dei brani suonati? No dai, seriamente, chi ancora legge i report degli eventi si aspetta una descrizione pezzo per pezzo dell’esibizione? Non ci credo, anche perché non potrei aggiungere nulla a quanto già noto a tutti: brani come su disco, suonati perfettamente da un gruppo rodato ed affiatato, aiutato da suoni all’altezza ed una scenografia calzante. Il cosiddetto “spettacolo da manuale”, nemmeno troppo vessato dalla piaga smartphone, a parte qualche irriducibile dell’immancabile video dal quale non si riuscirà a percepire mezza nota che una. Menzione d’onore al finale di “Deliverance”, che chiude la scaletta dopo la classica finta dell’uscita di scena post fittizio brano finale; quel riff reiterato, che ogni volta spiazza, conclude degnamente a mo’ di ciliegina sulla torta.
Non posso non completare questo scritto con una menzione d’onore – sponsorizzata dai migliori brand d’alta moda – a Martín Méndez con cappellino peruviano e Waltteri Väyrynen (che si conferma il “metallaro del gruppo”) con t-shirt dei Morbid ed elegantissimo crocifisso rovesciato al collo: idoli!

Scaletta Opeth:
01. §1
02. Master’s Apprentices
03. The Leper Affinity
04. §7
05. The Devil’s Orchard
06. To Rid The Disease
07. The Night And The Silent Water
08. §3
09. Heir Apparent
10. Ghost Of Perdition
11. Deliverance

P.S. sarò ripetitivo, ma prima o poi qualcuno si degnerà di fornire un pass foto ad HMW, da assegnare ad un fotografo serio, ogni volta che si palesi il mio nome…

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