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Dai resoconti del passato al libretto di un disco rock: questo il soggetto testuale di The Great White Nothing; i cui creatori, il trio danese dei Grava, trattano eventi storici guadagnatisi a proprio tempo onori della cronaca più o meno rilevanti, nonché quanto suscitato ed ingenerato allo scoprimento di tali, tragici brandelli di trascorsi umani.
Sempre all’osso.
Le due gole urlano – furiose e sguaiate – della crudezza degli scontri corpo a corpo su “Bayonet”; dello strazio, fisico e psicologico, vissuto da Johann Patkul, nobile svedese condannato per alto tradimento e posto a morte sulla famigerata ruota nel 1707 (“Breaker”); la spedizione della Terror e della Erebus, capitanata da Sir John Franklin e giunta a termine tra il 1847 e il 1848, allorquando le due bombarde rimasero bloccate tra i ghiacci circostanti l’Isola Di Re Guglielmo (oggi quei ghiacci sono acqua navigabile: chi l’avrebbe mai detto?) – in “Thresher” e, appunto, “Erebus”.
Lo stile dei Grava è un noise–core apocalittico dalle tinte sludge, se vogliamo spendere questa parola.
Lenti, tragici e rovinosi – come nel più tipico degli immaginarii picchiatòrii, questi tre fabbri si accaniscono contro le proprie incudini, presto sfinite, con immane freddezza. Uno scroscio di piombo e vanadio, battuti con furia. Fino all’osso. Gli squarci liquido-atmosferici e i pochi assoli, che punteggiano The Great White Nothing, ben si sposano con la serratezza dello stile predominante: aggiungendo un tassello ulteriore al senso di apocalissi. Registrato, così come Weight Of A God, per lo più in presa diretta al Favemøllen (a Copenhagen) da Troels Damgaard Holm, il disco rappresenta una conferma del valore del gruppo e ci pare, anzi, un gradino sopra al suo predecessore.
All’osso.



