Volbeat (Jon Larsen)


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Il biglietto ce l’ho, il pass per l’intervista pure, il quintale di booklet da far autografare per la mia sorellina anche. Sono pronto.

Entro nel backstage sentendomi un bambino a Natale, gli pterodattili nello stomaco, in cerca della band. Conosco il mio contatto per l’intervista, conosco gli altri ragazzi, mi intrattengo in qualche chiacchiera per ammazzare l’attesa, mentre da dentro risuona ancora il soundcheck. Siamo un po’ in ritardo.

Poi eccoli, Michael prima, Rob subito dopo. Passano veloci, giusto il tempo di un saluto e di una stretta di mano. Sconfiggo il deliquio e ricambio il saluto, mentre con la coda dell’occhio scorgo Jon, il batterista, la mia preda designata.

Attendo paziente il mio turno, poi lo show, il MIO show, ha inizio. Jon è calmo, pacato, e parla sempre a bassa voce, senza mai scomporsi. Io no. Fuori impassibile, dentro un’intera voliera scatenata. E’ la mia prima volta, per Giove!

Ok, prima di tutto, come vi sentite quando tornate in Italia? C’è qualcosa che vi piace particolarmente?

Beh, prima di tutto, mia moglie è per metà italiana, quindi sono già stato qui un paio di volte insieme a lei. A parte la solita ovvietà sul cibo, che amano tutti, penso che mi piaccia il tipo di mentalità che le persone italiane hanno, sai, tipo: “Lo faremo oggi o forse domani!”, quel genere di cose. Mi piace anche l’idea di basare tutto sulle vostre famiglie, come vi ritrovate tutti insieme per cena, tutti si prendono cura l’uno dell’altro e si proteggono a vicenda. Penso che sia davvero bello, è molto diverso dalla Danimarca.

Parliamo del vostro ultimo album: in “Outlaw Gentlemen And Shady Ladies” parlate di personaggi come Black Bart, Pearl Hart o Lola Montez, persone in un certo senso con una doppia vita. Come vi è venuta l’idea di fare un album che parlasse di queste persone?

Penso che l’ispirazione per questi personaggi sia venuta fuori perché Michael legge molte storie sul vecchio West e guarda molti film, dai classici a cose più curiose. Penso che per lui sia come tornare bambino, perché era quello che faceva con suo padre. Sai, per avere nuove ispirazioni, invece che scrivere di personaggi fittizi, penso che per lui sia stata una nuova sfida scrivere a proposito di personaggi realmente esistiti, come Black Bart, Lola Montez e certamente Doc Holliday. Tutti conoscono storie a proposito di Doc Holliday, ma non tutti hanno familiarità con personaggi come Black Bart e Lola Montez. Almeno per me è stato così, li ho conosciuti quando Michael me ne ha parlato e allora gli ho detto: “Ok, va bene!”.

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King Diamond è stato vostro ospite nella canzone “Room 24”. Lui è una leggenda vivente in Danimarca, com’è stato lavorarci insieme?

Bè, non posso dire che abbiamo davvero lavorato insieme, cioè, noi abbiamo composto la canzone e certamente Michael era in contatto con lui e gli aveva detto di scrivere la sua parte di canzone in base al tema trattato. Così lui l’ha fatto, ma non sono certo che l’abbia scritta tutta lui, sicuramente ne ha fatta una parte e una volta tornato a casa a Dallas l’ha registrata e abbiamo cominciato a passarci avanti e indietro la versione di prova. La prima volta che ho sentito la canzone non era come King l’ha voluta alla fine, c’era solo una parte della sua voce e mancavano ancora dei pezzi, era ancora un casino, ma quando l’ho sentita ho detto: “Oh, questo è King! King è tornato!”. Avevamo parlato del fatto che per noi non c’era ragione di fare una canzone come per esempio “Sad Man’s Tongue” e lavorarci con King, avevamo bisogno di qualcosa di adatto a entrambi, e anche questa è stata una nuova sfida.

Nel video di “Cape Of Our Hero” volete mandare un messaggio forte contro la guerra. Come mai avete scelto di parlare di un argomento come questo?

Davvero l’abbiamo fatto? Ahah! E’ un ragazzo che perde suo padre, quindi è anche a proposito della guerra, ma è soprattutto sul fatto che quando si è piccoli si hanno dei supereroi e normalmente da bambino il tuo supereroe è tuo padre. Poi quando cresci magari lo diventano Superman, Batman o Spiderman, ma fondamentalmente il video è su questo ragazzo che perde suo padre e contemporaneamente la fiducia nei supereroi. Quindi no, non è sulla guerra, suo padre era vestito da soldato ma avrebbe anche potuto essere un poliziotto. Il video tratta di come si perda un sogno e la fiducia in un eroe e di come se ne ritrovi uno in sé stessi.

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In questo album ci sono più canzoni con chitarre pulite o ritmi meno violenti rispetto al passato, parlaci di questa scelta…

E’ quello che ci siamo sentiti di fare quando abbiamo registrato quest’album, era come ci sentivamo in quel momento. Trovo divertente che tu abbia detto che quest’album è meno violento e più pulito degli altri: io non ho sentito questo, anzi, mi sembra che c’abbia fatto tornare alle origini. Ci sono molte canzoni che ruotano attorno ai riff, alle parti vocali e a quelle melodiche e penso che siamo migliorati molto anche in studio. Abbiamo avuto più tempo e più abilità nel provare le canzoni e trovare il sound giusto. Penso che la vera differenza sia stata questa.

Veniamo alla band. Sono passati dodici anni da quando sono nati i Volbeat. Pensi che sia cambiato qualcosa in questi anni nel vostro approccio alla musica o verso il pubblico?

Ovviamente esistendo da dodici anni siamo cambiati in qualcosa, ma penso che l’approccio che abbiamo sia lo stesso di sempre, voglio dire, le cose per noi sono andate fortunatamente bene, ma mi piace pensare che siamo ancora le stesse persone degli inizi, che vogliono ancora le stesse cose e hanno ancora le stesse ambizioni, e rimangono con i piedi per terra. Come ho detto, le cose sono andate bene, ma sarebbe bello farle andare sempre meglio.

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Una delle novità più importanti è l’ingresso nella band di Rob Caggiano come solista. All’inizio doveva essere solo un supporto per voi nella produzione dell’album. Quando avete deciso di farlo entrare come mebro effettivo, e quanto è stato importante il suo apporto?

Conoscevamo Rob da un paio d’anni, da quando abbiamo fatto il tour in America con The Damned Thing: abbiamo avuto modo in quell’occasione di conoscerlo molto bene. Lui saliva sul palco con noi quasi tutte le sere e suonavamo le canzoni dei Misfits. E’ stato lui quello che ha detto: “Wow, penso che dovremmo fare qualcosa insieme un giorno! Potrebbe uscirne qualcosa di davvero buono!”, e noi gli abbiamo risposto: “Certo, nessun problema!”. Così quando è venuto fuori questo nuovo album, abbiamo pensato di cercare un quarto elemento, perché eravamo rimasti in tre e non avevamo un vero chitarrista, così siamo andati in studio e abbiamo chiamato Rob per fargli produrre l’album, ed è così che è cominciata. Michael aveva lasciato delle canzoni incomplete, con delle parti mancanti, ancora da finire, così abbiamo chiesto a Rob se voleva mettere degli assoli in quelle parti e lui ha accettato. Così abbiamo cominciato a lavorare insieme e una sera mentre eravamo in studio, Rob ha detto: “Ah, comunque ho lasciato gli Anthrax”. Noi gli abbiamo chiesto perché e lui ci ha risposto che voleva concentrarsi sulla sua carriera di produttore e non se la sentiva di continuare con tour così impegnativi. Poi abbiamo continuato a lavorare con lui e nel farlo ci sentivamo davvero bene, così ci siamo detti: “Perché non chiedere?”. Michael gli ha chiesto di entrare nella band e lui ha risposto che avrebbe avuto bisogno di un paio di notti per dormirci sopra, poi è tornato in studio e ha detto: “Sì, voglio entrare nella band!”. E così è stata una storia breve, siamo entrati in studio in tre e ne siamo usciti ancora in quattro.

Suonate spesso degli accenni di cover di Judas Priest, Slayer o Motorhead. Cosa rappresentano per voi queste band?

Rappresentano molto: quando ero un teenager sono passato attraverso a melodie estreme, non c’era nessuno al di fuori degli Slayer, e dal mio punto di vista sono ancora la band metal per eccellenza, insomma, tutti amano gli Slayer. Sono stati il nostro punto di partenza, lo stesso vale per i Motorhead e i Judas Priest, gruppi che ascoltavamo quando eravamo teenager, sono i gruppi con cui siamo cresciuti, come anche certamente gli Iron Maiden e i Metallica. Sono le band con cui siamo cresciuti e che vogliamo sentire nella nostra musica, vogliamo avere un po’ di Slayer, un po’ di Motorhead, sensazioni che rimandino ai Judas Priest, ai Metallica, cose di questo genere insomma. Significano molto.

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In che modo siete stati influenzati da artisti come Johnny Cash, Elvis o Jerry Lee Lewis?

Elvis era ed è il più grande intrattenitore di sempre, non c’è nessuno più grande di lui. Elvis e i Beatles. Cioè, Michael è cresciuto ascoltando Elvis, Johnny Cash e Little Richard, io invece ascoltavo i Beatles e i Rolling Stones, quindi certamente hanno avuto un’influenza su di noi, e quando i Volbeat si sono formati non ci importava molto di quello che le persone pensassero, volevamo trasmettere le nostre sensazioni. Ecco perché una canzone può suonare come i Black Sabbath, perché in quel momento avevamo quelle sensazioni, invece un’altra canzone può suonare come gli Offspring e un’altra come i Metallica. E’ strano, ma ok, chi dice che non possiamo farlo? Nessuno. Quindi eccoci qua. E’ quello che facciamo, fondamentalmente abbiamo attinto a tutti i gruppi che ci hanno influenzato: Elvis, Beatles, Metallica, Slayer, Iron Maiden. E’ così che abbiamo cominciato.

L’intervista finisce così, velocissima, con un grazie e un arrivederci. Uscendo scorgo il resto della band. Mi trattengo giusto il tempo di un ultimo saluto, e già mi tocca lasciare il Paese dei Balocchi per ritornare nel freddo di un grigio pomeriggio di metà ottobre. Poi la sera il concerto, che concerto! La magia del rock’n’roll che ritorna, ogni volta. Una cosa pazzesca. Ma questa è un’altra storia, signori, e la si dovrà raccontare un’altra volta…

Sito ufficiale: www.volbeat.dk
Myspace: www.myspace.com/volbeat
Facebook: www.facebook.com/volbeat
Etichetta Universal Music – http://www.universalmusic.it/pop/?genere=2

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