25/04/2025 : Frontiers Rock Festival – Giorno 1 (Trezzo, MI)


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25/04/2025 : Frontiers Rock Festival (Giorno 1) – Live Club, Trezzo Sull’Adda (MI)

Asia

Pride Of Lions

Honeymoon Suite

Bonfire

Shakra

Art Nation

Fans Of The Dark

 

 

L’autunno scorso un messaggio su whatsapp, inviato da un carissimo amico nonché collega della redazione di heavymetalwebzine, mi annuncia il ritorno della settima edizione del Frontiers Rock Festival nell’aprile 2025 in quel di Trezzo Sull’Adda (MI), praticamente la location che ha ospitato tutte le precedenti edizioni dal 2014 al 2019. L’evento è organizzato sempre dalla casa discografica italiana Frontiers Music, con sede a Napoli, che nel tempo si è affermata come una delle etichette più importanti del rock e dell’hard rock melodico mondiale grazie alla lungimiranza dell’imprenditore e presidente dell’etichetta, Serafino Perugino. Partendo dalle produzioni underground, nel corso degli anni, la casa discografica ha messo su un roster enorme, includendo anche band del calibro di Def Leppard, Whitesnake, Asia e Journey per citarne solo alcune. Sinceramente la notizia è già nell’aria da qualche mese ma dopo sei anni d’attesa questo avviso mi sembra una vera manna dal cielo dopo aver temuto che anche quest’anno la kermesse sonora meneghina saltasse di nuovo. Sicuramente, chi non è mai andato si chiederà il motivo di così tanta attesa ed entusiasmo per una esibizione sonora di hard rock melodico che più che un concerto sembra una vera e propria maratona di tre giorni con alcune band importanti ma non altosonanti e con prezzi, quest’anno, molto elevati rispetto alle scorse edizioni. Innanzitutto, uno degli aspetti che rendono questa manifestazione speciale è il contatto sincero e diretto con il pubblico perché i gruppi rock partecipanti, dopo il concerto, si uniscono al pubblico per fare foto, firmare autografi e scambiare due chiacchere con i propri supporters. Questa peculiarità non si trova facilmente altrove e qui le band e il pubblico sono un tutt’uno fondendosi a vicenda e creando un’atmosfera unica e irripetibile. Certo, la musica proposta è importante ed è per fortuna ottima ma al Festival si crea un ambiente sano, allegro, spensierato ed emozionante. Insomma, si percepisce un vero e proprio spirto rock che porta, indipendentemente dal Paese di provenienza, ad essere una sola comunità e a vivere un’esperienza unica nel suo genere difficilmente descrivibile a parole ma che merita di essere vissuta dal vivo. Finalmente dopo la conferma delle date, sul sito della casa discografica, ovvero il 25 il 26 e il 27 aprile 2025, l’euforia iniziale e un piccolo svenimento di contentezza mi danno immediatamente la spinta per prenotare il volo aereo e soprattutto di chiedere subito l’autorizzazione al mio gran capo Ivan Gaudenzi di poter partecipare come inviato. Dopo la benedizione del mio “boss” comincio a cercare proseliti e a spargere la voce ad amici e parenti perché amo salire a Milano in compagnia.  Tra sms, e-mail e chiamate telefoniche riesco ad incuriosire e a convincere l’amico e concittadino Luca Perciabosco che nonostante non sia un amante di questo genere musicale si decide a seguirmi in questa, per lui, nuova avventura, che diventa allo stesso tempo anche l’occasione per andare a trovare gli anziani genitori
milanesi. Il 25 aprile alle 14:00 in punto siamo entrambi in fila, sotto un sole cocente, davanti all’ingresso pronti a sentire, a breve, il tremolio del palco del Live Music Club; locale eccellente con una capienza di circa 2000 persone e un cortile interno dove si può mangiare, bere e incontrarsi con i musicisti. L’obiettivo non è solo di cominciare a recensire la prima giornata, ma anche di entrare nell’atmosfera di allegria e festa che un grande spettacolo come questo può offrire. Quello che balza subito all’occhio e all’orecchio è l’appassionata e forte presenza straniera davanti ai cancelli del locale che in modo composto si avvia all’ingresso. Infatti, la parte del leone, la fanno proprio gli stranieri (tedeschi, inglesi e svizzeri su tutti, ma anche sudamericani e canadesi) ormai lo zoccolo duro di questo festival. Senza di loro questi tre giorni di show non avrebbero ragione d’esistere e la cosa un po’ rattrista perché è strano che molti metallari della penisola non considerino ancora vincente un hard rock melodico ancora in forma di grazia nonostante i tempi d’oro degli anni ’80 siano lontani anni luce. Dopo l’accreditamento al botteghino e dopo aver salutato qualche amico che non si vede da qualche tempo, varchiamo la porta  catapultandoci sotto il palco pronti a sentire l’esibizione degli svedesi Fans Of The Dark che con il primo pezzo “Night Of The Living Dead” estrapolato dall’album Suburbia del 2022 rompono il ghiaccio dando il via alla VII edizione del festival ormai uno dei fiori all’occhiello musicale della nostra pigra e incompetente nazione.

 

 

 

 

Prima però occorre ricordare, che una carina presentatrice, vestita alla cowboys con un grosso cappello  in testa, saluta in italiano e in inglese accogliendo ancora i pochi presenti in sala. Purtroppo, la ragazza, prima di far aprire il sipario, comunica tristemente l’assenza per problemi di salute del batterista e fondatore degli svedesi Freddie Allen sostituito all’ultimo minuto dal nostro bravissimo Marco Sacchetto dei Temperance, che non lo fa affatto rimpiangere. La particolarità del combo nordico è quella di avere un sound retrò con una melodia radiofonica tipica degli anni’ 80 quando nel mondo comandava l’hair metal e il classico hard rock. Il primo pezzo è molto ritmato, sdolcinato e a tratti leggero ma nel complesso è esaltato dalla spigolosa e intermittente chitarra elettrica di Bromvall che si sbizzarrisce in distorti riff e armonici assoli tipici della NWOBHM. Le sue sei corde sono sovrastate solo dalla caldissima ugola del bravo Alex Falk vestito in nero con un abito femminile e un appariscente cappello rosso in testa. Le sue tranquille e pulite corde vocali danno incisività melodica al brano grazie anche al contributo fondamentale della chitarra del già citato Oscar Bromvall. I Fans Of The Dark hanno quasi una cinquantina di minuti a disposizione per mettersi in mostra e far vedere tutta la loro bravura. Quindi puntano da subito su un coinvolgente brano del passato come “Life Kills”, pezzo estratto dall’omonimo e primo album in studio della formazione. La song è caratterizzata da una costante batteria e da un vibrante basso che insieme alla spigolosa chitarra elettrica creano le condizioni per un refrain melodico adatto alla passionale e acutissima voce del singer di colore applaudito calorosamente dalla folla appena formatisi in sala. Falk toglie i suoi enormi occhiali da sole quando capisce che i motori del suo gruppo sono caldi e pronti per lanciare le note della meravigliosa ballata “Christine”. Questo è il vero e proprio cavallo di battaglia del gruppo estratto dall’ultimo disco Video, che viene accolto a furore di popolo e cantato a squarciagola da tutti. Si, proprio tutti! Anche da quelli che non l’hanno mai sentito in vita loro, come il mio caro Luca che comincia a scattare qualche foto rendendosi così utile alla causa. I quattro vichinghi, in realtà stasera tre per l’assenza del drummer Allen, sono l’esempio lampante di una manifestazione musicale che si prefigge lo scopo di includere band emergenti e giovani talenti come gli scandinavi, con gli storici e importanti gruppi che hanno e che  influenzano ancora la scena internazionale. Sempre dall’ultima fatica ascoltiamo l’emozionante “Let’s Go Rent A Video”, canzone di puro AOR radiofonico che diluiscesapientemente melodie sdolcinate e grintose. Il tutto grazie al grande lavoro chitarristico del superlativo Bromvall, capace di aggiungere quel briciolo di hard rock ottantiano al quale si aggiunge, nell’orecchiabile ritornello, la voce pulita e teatrale del bravissimo Alex vera e propria forza trainante del gruppo. Il proseguo con la raffinata e mielosa “Find Your Love”, dalle magiche tastiere ottantiane e dall’ottimo ritornello va a braccetto con i sintetizzatori della galoppante e sentimentale “The Neon Phantom”. Quest’ultimo è un pezzo robusto, ben arrangiato e orecchiabile che manda in visibilio gli spettatori del festival che cominciano ad aumentare considerevolmente di numero. Alex e soci salutano poi con la conclusiva e cadenzata cover degli americani Balance: “In For The Count”, cantata divinamente dallo stravagante frontman svedese ed eseguita magistralmente a livello strumentale soprattutto dal virtuoso chitarrista Oscar che riproduce fedelmente le ruggenti corde elettriche del brano originario.

Scaletta:

01. Night Of The Living Dead
02. Life Kills
03. Christine
04. Let’s Go Rent A Video
05. Find Your Love
06. The Neon Phantom
07. In For The Count

Sono le 15 e 35 e tocca sempre ad una band svedese riaprire il sipario. I talentuosi Art Nation, rigorosamente vestiti di nero e capitanati dall’estroso Alex Strandell (Diamond Dawn, Crowne, Nitrate) sono uno di quei gruppi che probabilmente ha assaporato troppo presto la popolarità ma che poi si è perso strada facendo tra litigi interni e una breve pausa artistica coincisa con la pandemia mondiale. Gli altri membri: Christoffer Borg alla chitarra, Alexander Lundgren alla batteria e Richard Svärd al basso stasera sono in formissima e lo si sente subito con l’iniziale e travolgente “Thunderball”, nuovo singolo inserito nel freschissimo album The Ascendance, uscito proprio il 25 aprile. A parte la potenza di fuoco sviluppata dalla chitarra elettrica e dalla sezione ritmica, si ode un massiccio campionatore che in sottofondo accompagna la canzone dall’inizio alla fine. Idem per la debuttante “Lightbringer”, dove però i ritmi si abbassano un pò per dare spazio alla melodia e alla acuta e determinata ugola di Alex che, purtroppo, per un problema tecnico al microfono è costretto ad interrompere il suo cantato. Peccato! Dopo due minuti di interruzione, la band ricomincia da capo sostenuta dalla folla che incoraggia iragazzi a ripartire. I vichinghi lo fanno subito con “Need You To Understand”, un hard rock melodico di matrice scandinava che probabilmente è uno dei brani più belli della loro discografia. Dopo il secondo e massiccio singolo “Halo” inciso un mese fa, infarcito sempre da una marea di campionatori e condito da un discreto e banale ritornello, gli Art Nation chiudono con l’orecchiabilissima “Echo”. Qui i giovanotti di Göteborg riescono incredibilmente a trasmettere alla platea molta energia e tantissimo impeto che suscita un enorme acclamazione finale. Belli i cori e le sorprendenti e acutissime corde vocali del cantante che si dimostra un ottimo leader e un buon intrattenitore ringraziando in italiano i partecipanti del forte calore trasmesso.

Scaletta:

01. Brutal And Beautiful
02. Thunderball
03. Echo
04. Lightbringer
05. Halo
06. Need You To Understand

 

 

Con qualche minuto di ritardo in scaletta la carina presentatrice annunzia la new entry in casa Frontiers. Si tratta degli svizzeri Shakra che meticolosamente preparano con cura i propri strumenti prima che il tendone si apra e li renda protagonisti dei prossimi sessanta minuti. In effetti si è curiosi di sentirli e vederli in azione perché degli elvetici se ne parla molto bene dato che hanno quasi un’esperienza trentennale. La band d’oltralpe suona un possente hard rock con venature metal e tantissima melodia che infiamma immediatamente i cuori dei rockers in sala già dalla prima: “Hello” dall’album High Noondel del 2016. Anche qui ci troviamo di fronte ad una band collaudata e ormai veterana fondata nel lontano 1997, che crede ancora di acquisire uno spazio importante nella scena internazionale sotto le ali protettrici della casa discografica italiana. Si aspetta la pubblicazione del nuovo disco per capire se il quintetto è ancora in grado di dire la propria in un genere ormai, da decenni, super saturo. Nonostante la scaletta preveda brani duri e melodici con assoli di buona fattura come nel caso del già citato “Hello” e riff di apprezzabile cattiveria come nella successiva “A Roll Of The Dice”, la varietà non è certo l’elemento sul quale gli Shakra puntano per distinguersi. Questo è l’unico aspetto negativo di una strabiliante esibizione dal vivo che lascia piacevolmente sorpresi e appagati perché gli elvetici suonano bene tecnicamente. Il cantante Mark Fox è una vera forza della natura muovendosi a destra e a manca sul palcoscenico e incitando il pubblico a seguirlo battendo le mani durante l’esecuzione dei pezzi.

Addirittura, in “Too Much Is Not Enough” ascoltiamo elementi trash grazie alle scatenate chitarre elettriche degli eccellenti Thom Blunier e Thomas Muster mentre nella pesante e cadenzata “Invincible” siamo di fronte ad un puro e convincente metal che fa impazzire l’intero Live Music Club. Il sound degli svizzeri si mantiene costante e fedele alle sonorità classiche della scena svizzero-tedesca pescando le proprie influenze da band famose come i Krokus, i Bonfire e i Gotthard per citarne alcuni. Basti ascoltare attentamente l’inno super orecchiabile di “Raise Your Hands”, estrapolata sempre dal riuscitissimo High Noon. Quello che comunque rende adrenalinico tutto lo show sono i potenti e i pieni giri di chitarra uniti a dei cori super melodici e alla ruvida timbrica del bravissimo Fox. Quando chiudono con l’ultima “RisingHight” si sentono pure le influenze sonore degli amati e fondamentali AC/DC ma gli Shakra riescono comunque a mettere del proprio evitando di cadere nella trappola di essere un clone perfetto di band più fortunate di loro. Dopo averli salutati con fragore e con il sorriso sulle labbra mi chiedo come sarà il loro prossimo lavoro in studio e soprattutto mi domando dove sia finito il mio carissimo Luca del quale mi sono dimenticato fino a questo momento.

Scaletta:

01. Hello
02. A Roll Of The Dice
03. Too Much Is Not Enough
04. Invincible
05. Something You Don’t Understand
06. Raise Your Hands
07. Ashes To Ashes
08. Rising High

 

 

Non ho molto tempo e dando una sbirciata interna al cortile del locale, ancora non del tutto pieno, lo vedo seduto in mezzo ad una folta comitiva di teutonici a bere birra a più non posso. Bevo qualcosa anche io e salutandolo al volo scappo a cercare un posto per ammirare i veterani Bonfire anche se del combo originario è rimasto solo il chitarrista Hans Ziller. Neanche il tempo di preparare la macchina fotografica e la solita presentatrice annuncia in inglese che proprio il leader dei tedeschi non è presente per il concerto per problemi di salute. Indescrivibile l’enorme delusione tra i presenti che comunque applaudono l’ingresso della new entry Dyan Mair al microfono, Frank Pané alla chitarra, Ronnie Parkes al basso e il nostro Fabio Alessandrini (Annihilator) alla batteria, un talento nostrano che unisce tecnica e presenza scenica che poi incontro di persona fuori dallo stage al termine del live. I panzer tedeschi partono istantaneamente in quarta, dopo il soave intro di “Nostradamus”, con la martellante e possente “I Will Rise”. Qui mischiano egregiamente il classico heavy metal con il genuino power germanico dimostrando come siano ancora orientati a scrivere galoppate metalliche senza mai tralasciare la melodia. Entrambi sono pezzi dell’ultimo e riuscito disco Higher Ground pubblicato qualche mese fa che mostra ancora tutta la solidità e la compattezza di una band orientata da decenni a un massiccio heavy metal a discapito del leggero hard rock ottantiano degli esordi. Sempre dall’ultima fatica è proposta la corale e scoppiettante “I Died Tonight”, dove i tedeschi abbandonano momentaneamente la durezza delle chitarre elettriche concentrandosi su armonie più soffici e su un ritornello super orecchiabile riportando gli ascoltatori ad atmosfere ottantiane condite da cori ultra-melodici. In assenza della seconda chitarra di Ziller, e purtroppo l’assenza si sente, la parte del leone la fanno: l’ottimo e micidiale singer greco, anche se poco passionale e il nostrano Alessandrini che macina, senza risparmiarsi, chilometri e chilometri con la sua doppia cassa Tama. In tema di passato, la storica e ritmata “S.D.I” è un tuffo indietro nel tempo che fa felici i supporters dei germanici così come la romantica e sentimentale “You Make Me Feel” presa anche questa da Don’t Touch The Light del 1986 e che fa ancora la sua bella figura. La stessa e battente title track “Don’t Touch The Light” è riproposta in chiave più corposa ricordando a tutto il pubblico il periodo d’oro di una formazione che con i primi tre dischi ha sfornato delle pietre miliari del genere. Basti ricordare Fire Works del 1987 e Point Blank del 1989 nei quali il sound dei tedeschi era un hard rock leggero, melodico e abbastanza lontano dai robusti suoni attuali. Dalla prima vengono proposte “Champion” e la conclusiva “Ready 4 Reaction”. La prima è caratterizzata da ruvidi giri di chitarra e da assoli al fulmicotone con suoni quadrati ma sempre melodici mentre la seconda è offerta in forma più dura e corazzata guidata dalla spigolosa sei corde elettrica dell’egregio Pané che per qualche minuto, con le sue abilità, fa dimenticare l’assenza di Ziller. Alla fine di questa buona esibizione sorge spontanea la domanda: sono migliori i duri Bonfire di oggi o quelli sdolcinati degli inizi? A voil’estrema sentenza.

Scaletta:

01. I Will Rise
02. S.D.I.
03. Sweet Obsession
04. I Died Tonight
05. Sword And Stone
06. You Make Me Feel
07. Longing For You
08. Don’t Touch The Light
09. Champion
10. Ready 4 Reaction

 

 

A ruota tocca adesso ai sottovalutati canadesi Honeymoon Suite, band “cult” per gi appassionati del puro AOR, che per la prima volta suona in terra Italica in oltre quarant’anni di attività, con sette dischi all’attivo (pochini) e svariati dischi di platino. Prima però c’è una pausa di circa venti minuti che permette di mangiare qualche panino e di bere qualcosa insieme seduti nelle panchine di legno all’interno del vasto cortile del Live Club dove per l’occasione, oltre al bar e ai punti di ristoro c’è anche una tensostruttura esterna per i meet & greet e per i concerti riservati ai VIP. Si tratta di una novità davvero interessante che offre uno spazio esclusivo e intimo, dove si possono incontrare i propri idoli in un ambiente dedicato e unico prima dell’inizio dei concerti pomeridiani. Per farmi perdonare l’assenza e l’abbandono offro quindi una costosa birra a Luca e dopo questa cena fugace ritorno a riprendermi prepotentemente il mio posto dietro le transenne per vedere all’opera gli attesissimi musicisti nordamericani. Purtroppo i canadesi, dato il ritardo accumulato prima, devono accorciare la set list e cominciano subito  con uno dei loro cavalli di battaglia del 1991, “Say You Don’t Know Me”, pescato dall’album Monsters Under The Bad. Questi validissimi settantenni regalano un tosto hard rock, ottimamente bilanciato tra i tappeti tastieristici di Peter Nunn e la chitarra elettrica dello straordinario Derry Grehan. La song è poi imbottita da moltissima melodia su cui svetta la ancora intatta e bella voce di Johnny. Questa è la qualità principale del suono di questo quintetto d’oltre oceano che agli inizi degli anni ’90 è spazzato bruscamente dal maledetto grunge di Seattle che miete tante vittime in un genere che da radiofonico viene estromesso dalle classifiche e dalle radio stesse. Il successivo “Find What You Are Looking For” è un singolo reperito dall’ottimo e ultimo Alive in cui la sezione ritmica e la tastiera riescono a formare un armonico ciclone che si unisce perfettamente alla robusta chitarra elettrica di Greham e alle strepitose e ammalianti corde vocali di Dee. Siamo nella piena positività degli anni ’80 e gli artisti lo confermano con l’orecchiabile “Burning In Love” arricchita da una avvolgente tastiera che con l’intermittente sei corde elettrica creano un’atmosfera avventurosa e cinematografica. Derry Greham conferma di essere un grande compositore e un egregio chitarrista e infatti a lui la band, per riposarsi e staccare per qualche minuto, affida il riempimento degli spazi vuoti con parti soliste abbastanza virtuose per uno che suona del buon e delicato rock melodico. Con “Wounded” aumenta la cattiveria del gruppo soprattutto con la robusta chitarra e l’ugola rauca del buon ​ Johnnie Dee capace ancora di dire la sua a livello vocale anche se a livello fisico è quasi immobile. Il cavallo di battaglia per eccellenza è l’accattivante e zuccherosa, “Stay In The Light”, in grado di far cantare a squarciagola tutta la gente sotto il palco e pure quella seduta fuori. Johnnie sentendo il coinvolgimento del pubblico non perde tempo ad allungare il microfono con l’asta verso la platea facendo cantare il ritornello a tutti ed il risultato è eccezionale e impressionante allo stesso tempo. Può una canzone di quasi quarant’anni fa suscitare tanto affetto ed emozione? La risposta è sì perché il rock è immortale e un brano come questo è per fortuna senza tempo e senza mode. L’abile guitar hero canadese continua poi a scatenarsi con la sua fedele sei corde elettrica nel proseguo del corposo rock and roll di “Lookin’ Out For Number One”, dove il quintetto mostra il suo lato più robusto ed energico facendo saltare e muovere una sala ormai numerosa e rumorosa. Anche l’ultima in scaletta “Love Changes Everything”, dal disco Racing After Midnight del 1988, rispecchia l’attitudine ribelle e armonica del gruppo che non disdegna di sfornare melodici e canticchiabili ritornelli che entrano immediatamente in testa. Il tempo li ha invecchiati solo nell’aspetto fisico e in alcuni elementi pure nei movimenti come nel caso dello statico Dee, che in alcuni brani abbraccia pure la chitarra elettrica, ma non nell’animo e nella sopraffina tecnica che ancora oggi riescono ad esprimere e ad offrire a tutti quelli che amano alla follia il classico rock melodico americano. Lunga vita agli Honeymoon Suite!

Scaletta:

01. Say You Don’t Know Me
02. Find What You’re Looking For
03. Burning In Love
04. Wounded
05. Stay In The Light
06. Lookin’ Out For Number One
07. Guitar Solo
08. New Girl Now
09. Love Changes Everything

 

Sono passate da poco le 20 e 25 e la solita valletta che, secondo me, adesso comincia a portare sfiga comunica che il grande Toby Hitchcock ha un problema alle corde vocali dopo le prove tenute la sera prima con il resto della band. A questo punto, per circa un minuto, cala il silenzio come se gli spettatori avessero capito che oggi è meglio rassegnarsi perché la giornata è storta. Toby è ormai da tanti anni il braccio destro del cantautore/polistrumentista e produttore Jim Peterik (ex Survivor, The Ides Of March) il quale da quando l’ha scoperto se l’è tenuto ben stretto affidandogli le parti vocali delle sue composizioni con i Pride Of Lions. Per motivi logistici il resto del gruppo è composto dagli italianissimi Hell In The Club capeggiati da Pico alla chitarra, Andy al basso e Mark alla batteria. Il cantante americano vestito con jeans strappati e maglietta nera a maniche corte saluta battendo il petto al pubblico ma nell’iniziale “Eye Of The Tiger”, lascia momentaneamente la guida vocale all’amico Jim pur muovendosi e saltellando a destra e manca sotto le grintose note della colonna sonora di Rocky III. I colpi di batteria e la intermittente sei corde elettrica del personaggio Peterik, artista speciale e unico nel suo genere e vestito come al solito in modo strambo, infiammano in pochi secondi i cuori di tutti soprattutto quando si cimenta nel magnifico e pirotecnico assolo chitarristico. Il settanta quattrenne, dimostra ancora di possedere un’energia invidiabile, canta benino con la sua solita e inconfondibile timbrica vocale con accanto il muto Toby che per l’occasione gli sta vicino battendo le mani e facendo il simbolo delle corna verso il pubblico. Il potente vocalist non si arrende e a poco a poco comincia a sciorinare tutto il suo repertorio cantando molte cover dei Survivor, come la sentimentale “In Good Faith” introdotta da un’ammiccante tastiera e dalla sua vellutata voce che sembra essere perfetta nonostante l’annunzio iniziale. Il frontman con un asciugamano bianco si asciuga la fronte e il viso dal sudore perché c’è caldo dentro il locale e la temperatura è salita di molto per via degli splenditi pezzi proposti dagli statunitensi. Gli altri musicisti sono fermi e ammirano, per circa un minuto, la bravura di questo grande cantante prima di partire ad eseguire un malinconico e melodioso ritornello che fa breccia nei cuori di tutti. Siamo all’apoteosi e tra applausi sinceri e inchini di gratitudine da parte dell’artista americano si continua fino alle fine con altri brani celebri dei Survivor, come la delicata e romantica ballata “The Search Is Over” e la vivace super melodica, “High On You”, dove a sorpresa entra in scena l’irlandese Robin Mcauley (M.S.G) che da qui in poi aiuterà Hitchcock a concludere lo spettacolo. Questo improvvisato duetto funziona benissimo e dà spazio a Jim di tuffarsi a suonare la sua incantata e fedele tastiera. La bravura di Robin è quella di mantenere la stessa tonalità di Toby senza mettersi in evidenza con la sua passionale e graffiante voce. Poi la memorabile “I Can’t Hold Back” e l’ultima “Burning Heart” chiudono con il botto il fantastico e irripetibile capitolo dei Survivor sotto gli applausi scroscianti di tutti, compresi i tecnici in studio e gli assistenti di palco. Durante la prima il cantante americano scende sotto il palcoscenico nel momento in cui Pico accenna il melodioso assolo di chitarra, salutando tutte le persone che gli capitano a vista e continuando a cantare ottimamente come se nulla fosse successo la sera prima. Nella seconda invece Jim torna alla sua sei corde elettrica contribuendo con la chitarra del nostro Pico ad esaltare un brano cadenzato e dal forte impatto melodico grazie ad una grande ed epico ritornello. Addirittura, prima che termini la composizione l’umile Robin Mcauley saluta in punta di piedi i suoi improvvisati compagni uscendo dal retro e lasciando la scena finale al collega Toby e al mitico Jim. Naturalmente i Pride Of Lions non suonano solo song dei Survivor ma anche brani propri come lo sdolcinato AOR di “Sound Of Home”, composto nel 2003 per l’album di debutto; l’introspettiva e melanconica “Gone” e la pschedelica “It’s Criminal”, che magnificano il lato più puro e brillante del rock melodico moderno. Nonostante un problema tecnico alla keyboard di Peterik e un Hitchcock a metà servizio, che anche se al cinquanta per cento delle sue possibilità sforna alcuni strabilianti acuti, il concerto è stato in generale commovente, unico e indimenticabile.

Scaletta:

01. Eye Of The Tiger
02. Sound Of Home
03. Gone
04. It’s Criminal
05. In Good Faith
06. The Search Is Over
07. High On You
08. I Can’t Hold Back
09. Burning Heart

 

 

Stasera il ruolo di headliner tocca agli storici inglesi Asia portati direttamente e all’ultimo minuto dal patron della Frontiers Serafino Perugino e la scelta in fin dei conti si rileva azzeccata. Purtroppo, non c’è il sold out per questa prima serata, mentre le due giornate successive registreranno il tutto esaurito dimostrando come la scelta dei gruppi sia stata indovinata anche se in questa settima edizione non troviamo gruppi rock italiani. Il tempo che Luca scatti qualche foto io mi posiziono sempre tra i primi posti in modo da godermi l’evento e innanzitutto vedere da vicino i musicisti. La forza di una band è sempre la performance dal vivo è gli Asia non deludono, anzi quello che colpisce subito e in positivo dall’iniziale “The Heat Goes On” è la prova maiuscola di Harry Whitley, il nuovo cantante e bassista del combo britannico vestito in modo elegante e in camicia sbottonata bianca. Da musicista sconosciuto che postava le sue cover degli Asia su You Tube adesso si ritrova protagonista e famoso grazie alla sua autorevole e appassionante voce che calamita l’attenzione di tutti dando così fiducia per un evento che si presenta scoppiettante ed eccitante. L’unico membro fondatore rimasto è il tastierista Geoff Downes (Yes) al quale si aggiungono dei musicisti di notevole spessore, come il batterista Virgil Donati e il chitarrista John Mitchell (Arena) capaci a mio avviso di riprendere bene i fasti degli anni’ 80. Sempre dall’album Alpha del 1983 viene suonata l’atmosferica “Don’t Cry”, altro pezzo da novanta ricco di tocchi tastieristici e di un refrain ultra-melodico cantato non solo dai fans ma da tutta la gente del Live Music Club. Il clima è bollente e adrenalinico tanto che già dalla terza “Wildest Dreames” si crea un feeling inossidabile tra il quartetto e il pubblico che comincia a cantare a voce alta i testi degli inglesi nonostante siamo di fronte ad un prog rock variegato e complesso. Le urla e gli acuti del vocalist sono pazzeschi e mietono applausi a più non posso. La prima parte del loro repertorio si focalizza sui primi album, infatti, dall’omonimo disco in studio dell’82 ascoltiamo la maestosa ed eclettica “Here Comes The Feeling” che dimostra tutta la loro sopraffina e profonda tecnica incastrata in tanti cambi di tempo alternati poi da passaggi acustici e da altri elettrici. Qui Whitley si toglie la giacca e con la camicia fuori dai pantaloni si addentra in una interpretazione superlativa del brano insieme al suo pulsante e precisissimo basso. Idem per la coinvolgente “Eye To Eye del 1983 ma stranamente nell’ambientale ballata “An Extraordinary Life” l’esperto Mitchell stecca nell’apertura del brano quando tocca alla sua sei corde elettrica inserirsi nel pezzo. A prima vista sembra un pò incerto e statico nel suonare il suo strumento ma poi riesce a riprendersi. Gli Asia però non sono solo degli artisti con tecnicismi o virtuosismi fini a sé stessi ma sono anche un gruppo di musicisti dalla forte e vigorosa vena rock come nel caso di “Time Again” in cui Harry canta in modo più aspro del solito. Lo stesso si può dire per la susseguente e ossessiva “Cutting It Fine”. I cavalli di battaglia suonati sono tanti e tutti legati ad una grande passato come nel caso del dolce lento “The Smile Has Left Your Eyes” o dell’altra struggente ballata “Only Time Will Tell”. Entrambi eseguiti divinamente dal giovane singer anglosassone accompagnato da un’incalzante tastiera e da una ritmata e soave sei corde elettrica che, all’unisono con la prima, riesce ad emanare stratosferiche armonie. Siamo verso la fine e il ritmo incandescente degli inizi sembra scemare a favore di atmosfere più rilassanti e cupe come nell’ottantiana “After The War” o nella sinistra “Sole Survivor” che solo nel facile e melodico ritornello e nell’assolo tastieristico dell’ottimo Downes si riempie di luce e di colore illuminando così un grande finale. Quando i quattro abbandonano velocemente il palcoscenico e si spengono le luci sembra finita ma i supporters urlando a gran voce il nome della band riescono a farli ritornare. Dopo un minuto, sotto un oceanico boato ce li ritroviamo in pista con le conclusive: “Open Your Eyes”, altra epica e fantastica ballata ricca di phatos e con l’avvincente, “Heat Of The Moment”, caratterizzata da un accattivante ritornello, da un grande coro e da lunghi e articolati assoli di chitarra.
Malgrado la scarsa vena del chitarrista John Mitchell, immobile per tutto il tempo nella sua posizione di partenza e qualche intoppo tecnico al suono della tastiera di Geoff Downes, comunque superato nel giro di pochi minuti, l’esibizione degli Asia è stata tutto sommato buona e degna di essere vissuta di presenza. Oltretutto, si sa da fonti certe che la formazione britannica è già al lavoro su un nuovo disco, il quale promette di essere entusiasmante e sicuramente considerevole di emozioni per i tantissimi fan sparsi per il mondo.

Scaletta:

01. The Heat Goes On
02. Don’t Cry
03. Wildest Dreams
04. Here Comes the Feeling
05. Eye To Eye
06. An Extraordinary Life
07. Time Again
08. Cutting It Fine
09. The Smile Has Left Your Eyes
10. Only Time Will Tell
11. Go
12. After The War
13. Sole Survivor
14. Open Your Eyes
15. Heat Of The Moment

 

Live report di Christian Rubino. Foto di Christian Rubino e Luca Perciabosco. Di seguito altre foto della giornata:

Fans Of The Dark:

 

Art Of Nation:

Shakra:

 

Bonfire:

Honeymoon suite:

 

Pride Of Lions:

 

 

Asia:

 

 

 

 

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