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27/04/2025 : Frontiers Rock Festival (Giorno 3) – Live Club, Trezzo Sull’Adda (MI)
Harem Scarem
Mike Tramp’s White Lion
Robin Mcauley
Storace
Ronnie Romero
The Big Deal
Seventh Crystal
Domenica 27 aprile il cielo su Milano è un po’ nuvoloso ma la temperatura è buona. Addirittura, ieri pomeriggio è pure piovuto a Trezzo sull’Adda, ma alla fine chi se ne frega, se non era per Luca, io non me ne sarei mai accorto. Il bello del Festival è che si svolge in un bel locale al chiuso dove indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, i concerti vanno avanti senza sosta per la gioia di tutti. Dopo pranzo, in autostrada si comincia a notare qualche coda di rientro dopo il magnifico ponte del 25 Aprile, che ha favorito tantissimi italiani, ma anche tanti appassionati di rock arrivati numerosi dalla penisola, da tutta Europa e addirittura anche dal Sudamerica e dall’Australia. Sono triste all’idea che questa tre giorni sia arrivata quasi al capolinea, ma Luca mi fa coraggio dicendomi che un anno passa presto e che nella prossima edizione ci saranno artisti ancora più famosi. In effetti ha ragione, il tempo passa celermente e poi da qui al prossimo anno chissà ancora quanti altri concerti andrò a vedere sparsi per l’Italia. Mentre posteggio l’auto davanti al Live Club, comincio a fare un bilancio provvisorio e penso pure a che cosa scrivere nel report quando tornerò a casa. L’organizzazione è stata impeccabile, dimostrando ancora una volta che anche qui da noi si possono preparare eventi di stampo internazionale con la massima professionalità, ma a livello tecnico e strumentale ci sono stati troppi intoppi che hanno inciso in negativo su alcuni musicisti. Certo, la perfezione non esiste, ma questo sarà sicuramente un aspetto da rivalutare per la prossima volta. Mentre mi incammino per fare la consueta fila relativa ai controlli sorrido nel vedere come Luca, in questi giorni, abbia fatto amicizia con tutti i ragazzi della security e con quelli del botteghino. Praticamente, non sa solo i loro nomi, ma sa vita, morte e miracoli di tutti. Tra abbracci, pacche sulle spalle, da buoni italiani, saltiamo la fila per entrare e ci addentriamo a vivere le ultime ore del Festival.
I primi ad esibirsi in questa ultima e lunga sfacchinata musicale sono gli svedesi Seventh Crystal, autori di un moderno hard rock melodico con evidenti influenze metal, che vengono presentati dalla solita presentatrice, la quale oggi pomeriggio sfoggia un abito e un grande cappello di colore rosso. Speriamo porti bene! I giovani svedesi già dalla prima e grintosa “Blinded By The Light”, presa dall’ultimo Entity immettono in sala tanta energia e melodia per via delle telluriche chitarre elettriche e dei devastanti e ossessivi campionatori che ahimè oggi creano dei limiti al combo scandinavo. La voce di Fyhr da sottile e pulita, comincia a crescere diventando eufonica e aspra, impreziosendo così il piacevole e semplice ritornello del pezzo infarcito da tanti cambi di tempo. Le nostre orecchie però non sono soddisfatte del suono. C’è qualcosa che non va nell’impostazione degli strumenti, perché i sintetizzatori sovrastano le chitarre elettriche e a tratti persino la batteria. Si ode anche un sound troppo ovattato dove la voce è messa troppo in primo piano. Peccato perché i vichinghi in studio, proprio nell’ultima fatica discografica, sfornano un buon prodotto con armonie ben bilanciate e una produzione nitida che ne esalta tutta la set list. La cosa dispiace perché questi ragazzi sono veramente in gamba, principalmente per la bravura e la duttilità del singer Kristian Fyhr che riesce, con i suoi movimenti, a rendere più piacevole lo spettacolo, come nella seconda in scaletta “Path Of Absurd”, song dall’ammaliante refrain melodico coperta da un massiccio tocco di sintetizzatori e di prolungati e sdolcinati assoli chitarristici. Gli scandinavi si accorgono dell’imperfezione sonora sul palco e questo li condiziona un po’, ma ormai l’unica cosa da fare è cercare di coinvolgere il pubblico con le melodie, come nel caso della stupenda “Million Times”; canzone dall’orecchiabilissimo ritornello che non lascia indifferenti e porta a sostenerli vocalmente e con schietti applausi soprattutto nelle parti atmosferiche della traccia. L’incoraggiamento della sala non manca affatto soprattutto quando si odono pezzi emozionanti ben interpretati dalle calde corde vocali del vocalist scandinavo, come nell’arpeggiante e acustica “So Beautiful” o nell’ultima e sentimentale “Say What You Need To Say”. Alla fine, e purtroppo, l’esibizione dei nordici non è il massimo ma i Seventh Crystal hanno enormi potenzialità e sicuramente sentiremo a lungo parlare di loro. Una serata storta può capitare a tutti.
Scaletta:
01. Blinded By The Light
02. Path Of The Absurd
03. Million Times
04. Architects Of Light
05. So Beautiful
06. Mayflower
07. Say What You Need to Say
“Oltre le gambe c’è di più” cantava qualcuno, ma non ditemi chi perché sicuramente non fa parte del mio repertorio musicale. Questa frase e questa specie di canzone mi vengono in mente e all’improvviso nel momento in cui vedo la sexy vocalist Ana e l’affascinante cantante e tastierista Nevena dei The Big Deal preparare gli strumenti dietro il momentaneo sipario, calato per l’occasione per dare il tempo al nuovo gruppo di prepararsi. Queste due bellissime ragazze fanno la loro gran figura non solo fisicamente, ma soprattutto a livello artistico perché sono veramente preparate. Il fidato Luca finalmente si fa vivo dalle mie parti per curiosità e per immortalare queste due belle musiciste con la sua macchina fotografica . La bionda Nevena, moglie del chitarrista Srdjan Brankovic e la bruna Ana tengono in scacco sensualmente la parte maschile della platea che da lì a qualche minuto le apprezzerà, insindacabilmente per la loro buona interpretazione. L’iniziale e tagliente “I Need Your Here Tonight” apre le danze, ma con l’handicap dei suoni non ancora ben bilanciati. La chitarra elettrica e la sezione ritmica in certi momenti sovrastano l’ugola bassa di Ana e quella di Nevena che con la sua possente voce e la sua keytar rossa a tracolla riesce comunque a mettersi in evidenza con intricati e complessi assoli tastieristici. Quello che conta alla fine è la musica e questo brano non delude affatto perché infiamma da subito tutti i presenti con la sua imponente introduzione di tastiera, che strizza l’occhio al metal sinfonico, e con il suo canticchiabile ritornello. Il ritmo è alto e trascinante grazie anche alle abilità artistiche del chitarrista Srdjan Brankovic, veterano della scena musicale serba grazie alla sua militanza in gruppi come gli Alogia e gli Expedition Delta. La sei corde elettrica si intreccia benissimo con la tastiera facendo a gara negli assoli ultra-melodici profusi da entrambi gli strumenti che gareggiano ad armi pari. Nella seconda “Better Than Hell”, sembrano in parte risolti i problemi al microfono ed Ana comincia ad interagire di più con il pubblico e con la sua stessa band. La successiva “Wake The Fire” è il marchio di fabbrica di un gruppo che presenta robustezza, tecnica e un eccezionale assolo di chitarra elettrica che fa sussultare gli amanti della sei corde. Qui Nevana abbandona momentaneamente la sua keytar per suonare la sua tradizionale tastiera e sviluppare articolati e particolarissimi assoli. I momenti clou dello show sono comunque gli ultimi due cavalli di battaglia dei serbi, ovvero “Never Say Never” estrapolata dal primo disco First Bite e “Survivor” pescata dall’ultimo Electrified. La prima è un galoppante hard rock ben riuscito soprattutto per l’interessante intreccio di chitarra, sintetizzatore e cori che infiammano l’anima anche grazie ai magici tasti della Nevena. La seconda è un pezzo cadenzato e atmosferico, dove la melodica e la sottile ugola di Ana si adattano benissimo ad un coinvolgente e accattivante ritornello che si pianta immediatamente in testa senza uscirne più. Siamo alla fine e si ha l’impressione che il tutto sia filato troppo in fretta e velocemente. L’hard rock ottantiano, mieloso ed energico dei serbi fa breccia tra gli spettatori con leggere e vivaci canzoni hard rock che portano allegria e spensieratezza. Quindi, oltre alla bellezza e all’apparenza fisica c’è tanto di artistico nei The Big Deal che vengono salutati meritatamente e a furore di popolo. Ci vorrebbe un bis, ma anche stasera siamo in ritardo di qualche minuto e bisogna correre.
Scaletta:
01. I Need You Here Tonight
02. Better Than Hell
03. Wake The Fire
04. Fairy Of White
05. Sensational
06. Never Say Never
07. Survivor
Sì, proprio così. Volo fuori a cercare Luca che sta cercando un posto asciutto dove sedersi in quanto pochi minuti prima si è abbattuto un forte temporale che ha bagnato sedie e tavoli. La brillante idea di un inserviente del bar, un diciottenne sempre sul pezzo, ci permette, grazie ad un tira acqua, di riportare un po’ di normalità nei punti d’appoggio e di dissetarci con qualcosa. Quando Ronnie Romero si presenta al suo pubblico con pantaloni e giaccia di pelle nera, si ha la sensazione di essere di fronte ad un artista ormai importante, che dopo tanta gavetta è riuscito a diventare popolare e richiesto da molti gruppi internazionali. Da quando, dieci anni fa, Ritchie Blackmore lo scopre e lo fa uscire dall’anonimato per rilanciare i suoi Rainbow, di acqua sotto o ponti ne è passata tanta, ma Ronnie non poteva immaginare quanto la sua vita sarebbe cambiata in meglio. Oltre ai famosi Rainbow, il cileno collabora con la Michael Schenker Group, con i Vandenberg e con i Lords Of Black per poi entrare nel roster Frontiers come vocalist dei Sunstorm e di altre band in giro per il mondo. Stasera il potente singer è in veste solista e con la sua fidata formazione propone all’inizio alcuni brani del suo ultimo disco: Too Many Lies, Too Many Masters, per poi eseguire delle storiche cover. La prima e battente, “Castaway On The Moon”, è una song commovente dove la batteria e il basso picchiano di brutto e senza respiro. L’ugola rauca e robusta del sudamericano guida l’intera melodia del pezzo aiutata da una leggera tastiera in sottofondo. Il cantante è in grado di mostrare nell’appassionante hard rock dalle sfumature AOR, “I’ve Been Losing You”, non solo la sua autorità ma anche la profondità della sua particolare timbrica vocale continuando con una splendida gamma espressiva che ne fanno uno dei migliori frontmen in circolazione. Un breve discorso di Ronnie e una tempesta di applausi fanno partire l’immortale “Stargazer” dei Rainbow che è lo snodo cruciale del live che da qui in poi prende quota bruscamente ed energicamente. Gli emozionanti e orientaleggianti riff della chitarra elettrica raggiungono la vetta con un assolo mozzafiato del tecnicissimo Jose Rubio, che insieme alla tastiera avvolgono questa spettacolare canzone. La seguente cover, “Kill The King”, sempre degli inglesi è un’altra di quelle pietre miliari tali da influenzare il melodic power metal mondiale con il suo ritmo martellante e asfissiante da non lasciare tregua. Circondato da una band di grandissimo talento, Romero aggiunge quella presenza scenica che tutti i grandi cantanti possiedono. La sua voce è poi impeccabile così come la sua estensione vocale che è impressionante. Romero è in formissima, ma soprattutto è dotato di grande estensione vocale e in più riesce anche con il viso e il corpo a trasmettere passione e forza. Dopo la cadenzata ed heavy “Vengeance”, pezzo epico ed esplosivo che fa muovere di gioia il pubblico del Music Club di Trezzo, c’è un’altra cover, “Rainbow In The Dark”, un vero e proprio inno al classico hard rock ottantiano in cui si mette ancora in luce l’ottimo guitar hero Rubio, il quale stupisce con la sua destrezza. Nell’ultima cover degli Journey, “Separate Ways (Worlds Apart)”, scelta da Romero per omaggiare il Presidente Serafino Perugino, il cileno canta ancora più divinamente, scaldando ancora di più gli animi che adesso sono pienamente roventi ed eccitati dal leader cileno. Tecnicamente, il gruppo non ha raggiunto il livello del brano originario, ma sia il singer con i suoi meravigliosi acuti finali e sia gli altri componenti, hanno catturato la simpatia e l’approvazione di tutti gli esigenti ascoltatori della serata. In conclusione, colpiscono in positivo: la qualità del materiale solista, l’ottima band di supporto e l’incredibile presenza scenica di Romero e scusate se è poco.
Scaletta:
01. Castaway On The Moon
02. I’ve Been Losing You
03. Chased By Shadows
04. Stargazer
05. Kill The King
06. Vengeance
07. Rainbow In The Dark
08. Separate Ways (Worlds Apart)
Che fine hanno fatto i Krokus? Nell’attesa che Marc Storace prepari la strumentazione per il suo momento al Frontiers Rock Festival mi sovviene d’istinto proprio questa domanda. Che io sappia, l’addio dalle scene musicali è partito nel 2018 con il tour Adios Amigos concluso nel dicembre 2019. Poi l’arrivo della pandemia blocca il sogno di Storace di continuare anche se dopo l’emergenza c’è qualche esibizione e nulla di più. In attesa di una resurrezione della band elvetica, che a questo punto pare poco probabile, il buon Storace mette su un bel gruppo rock dopo aver accumulato un bel po’ di materiale per i suoi dischi solisti. Il settantatreenne cantante maltese appare in piena forma, con addosso un giovanile giubbottino di jeans, già con l’apertura del mid tempo “Rock This City” tratto dall’ultimo Crossfire. Questo pezzo mostra come il suono dei suoi Krokus sia sempre al centro della sua creatività artistica. La voce graffiante e rauca è la ciliegina sulla torta e accompagna i distorti giri di chitarra elettrica che, insieme alla potente sezione ritmica, culmina in un affascinante ritornello. L’ugola per fortuna è sempre la stessa così come anche il suo modo di intrattenere e parlare con il pubblico, come nel caso di “Screaming Demon”, brano di hard rock melodico alla AC/DC che possiede un pizzico di metal guidato dal suo inconfondibile e forte stile vocale ed estrapolato sempre dall’ultima sua fatica discografica.
Il suo primo aneddoto della serata è un suo ricordo di quando venne l’ultima volta con i Krokus a Milano e ringrazia tutti per essere stasera qui ad ascoltarlo. Naturalmente la set list si concentra proprio sul materiale della vecchia formazione che suona praticamente allo stesso modo degli AC/DC, in poche parole una specie di clone europeo. Il primo colpo è la rapida e sfacciata “Midnite Maniac”, che Marc ha sempre adorato proporre dal vivo. Sinceramente le distorte chitarre elettriche e lo sdolcinato refrain fanno pensare più alle spiagge assolate della California che ai saltellanti canguri australiani. Quello che colpisce, a parte le sue ancora intatte e roche corde vocali, è la bravura degli artisti che suonano con lui. La bassista Emi Meyer non si ferma un minuto facendo avanti e indietro sul palco e sempre con il sorriso sulle labbra, ma lo stesso si può anche dire per il chitarrista solista Dom Favez che si sposta spesso vicino al pubblico per far ammirare i suoi virtuosismi chitarristici. Altri pezzi da novanta sono altre tre song dei Krokus: la battente e cadenzata “To The Top”, l’ambientale “Screaming In The Night” e la dura “Hellraiser”. Qui il Live Club si infiamma cantando i ritornelli appresso a Storace che gradisce e apprezza il sincero amore per queste pietre miliari senza tempo del genere. In particolare nella seconda, piace l’inizio solista della giovane e timida chitarrista inglese Anna Cara che insieme alla sezione ritmica innesca dei distorti riff su cui sopraggiunge la bassa e rauca voce del frontman. La gente percepisce l’amore e la passione del vocalist e batte le mani durante l’esecuzione della bluseggiante e cadenzata “Hellraiser”, altra mitica e leggendaria canzone dai suoni spigolosi e aggressivi. Come la maggior parte degli artisti di questa edizione, anche il buon Marc si presta ad un duetto con il fenomenale Ronnie Romero interpretando la conosciuta e roccheggiante “American Woman” dei canadesi The Guess Who, risalente al 1970 e già ripresa dai Krokus su One Vice At A Time nel 1982. A mio avviso scelta sbagliata perché Ronnie è di due spanne superiore a Storace e la cosa si nota immediatamente soprattutto nelle parti più alte del pezzo. A parte questa piccola pecca che si poteva benissimo evitare, il concerto si conclude con l’ennesimo brano dell’ex band di Storace, ovvero la vivace e trascinante “Rock’n’Roll Tonight”, dotata di adrenalinici riff di chitarra e di quegli inconfondibili ritornelli e cori tipici degli intramontabili e ancora amati AC/DC che non lasciano indifferenti un pubblico pronto ad alzare le mani in alto e a saltare sul posto. A parte il mal riuscito duetto con l’inarrivabile cileno, quello che forse ha stonato in questi settanta minuti, sono le pause troppe lunghe tra un pezzo e l’altro in quanto i musicisti escono spesso dal palcoscenico per dissetarsi e riposarsi. Per il resto e in generale si può parlare di una discreta esibizione dove si ode piacevolmente la ruvida e grintosa ugola di Storace attorniato da una formazione molto interessante che versa sul palco tanto sudore ma trasmette anche tanta allegria.
Scaletta:
01. Rock This City
02. Midnite Maniac
03. High On Love
04. To The Top
05. Screaming In The Night
06. Hellraiser
07. Screaming Demon
08. We All Need The Money
09. American Woman
10. Live And Let Live
11. Rock ‘n’ Roll Tonight
A proposito di allegria ma dov’è finito Luca? Dopo vari giri interni ed esterni del locale non riesco a trovarlo ma quando ormai rassegnato mi dirigo sotto il palco, lo vedo dietro il bancone del bar a farsi dei selfie con i baristi e naturalmente a bere degli alcolici che da lontano non riesco a decifrare, ma scommetto che è riuscito a scroccare gratis. Io di contro, da qui alla fine devo essere lucido e sobrio, come del resto lo è stasera l’ottimo Robin McAuley (ex Grand Prix, ex Far Corporation, Black Swan, ex Michael Schenker Group). L’irlandese sta vivendo incredibilmente una seconda giovinezza sia a livello fisico che discografico, puntando nella prima parte dello show sui suoi ultimi pezzi solisti pescati dai recenti album: Standing On The Edge del 2021, Alive del 2023 e l’ultimo Soulbound del 2025. La scelta delle canzoni è azzeccata a partire dalla portentosa e armonica “Thy Will Be Done” che infiamma da subito gli animi dei presenti, curiosi di vedere all’opera un uomo leggendario e ancora all’altezza come Robin. Attorno a lui ruota un gruppo di musicisti italiani di grande spessore come Alessandro Mammola e Andrea Seveso alle chitarre, Alfonso Mocerino alle pelli, il bassista Andrea Arcangeli (DGM) e il tastierista Alex Lucatti (Deathless Legacy), la cui recente uscita dai Vision Divine ha fatto parecchio discutere i fan della band italiana e non solo. Questo perfetto connubio artistico e scenico si sente e si vede anche nella seguente “Standing On The Edge”, dove la rauca voce di Mcauley la fa da padrone accompagnando un bell’ottantiano e zuccheroso refrain, arricchito da un fantastico assolo di chitarra. Il sound dell’irlandese è un fresco hard rock melodico con elementi di melodic metal che lo rendono più appetibile a chi ama dei suoni più forti. Robin, nonostante abbia anche lui superato i settanta anni non si risparmia sia vocalmente e sia nei movimenti sorridendo sempre alla gente del festival che lo incita in continuazione. Audacemente prosegue con i suoi pezzi come nell’atmosferica “Alive”, in cui la keyboard e una grintosa chitarra elettrica mettono in moto una melodia e un ritornello avvolgenti e trascinanti, che rimangono subito in mente rilassando una platea attenta e a tratti in rigoroso silenzio. Piace anche la ribelle e ritmata “Dead As A Bone”, ma le ultime tre del suo repertorio solista sono quelle che fanno traboccare di gioia gli amanti del genere che con le braccia in aria cantano i gradevoli ritornelli dell’iperbolica “Til I Die”, dove la band sprigiona delle vigorose note condite dalla rauca e calda ugola del mitico cantante e culminante in un ottimo ritornello. L’iniziale linea di basso lancia poi la super melodiosa “Soulbound”, che con un mieloso ed orecchiabile ritornello, e un fulminante assolo chitarristico non fa prigionieri in sala. L’ultima e battente “Best Of Me, è una galoppante e massiccia song di melodic metal spinta da una martellante sezione ritmica e da frenetiche chitarre elettriche. A questo punto, prima che il nostro guerriero irlandese si butti indietro nel tempo con le canzoni ottantiane della Michael Schenker Group, viene lanciata sul palcoscenico, da alcuni supporter di un fan club greco, una grande bandiera raffigurante le foto dei giovanissimi McAuley e Schenker quando suonavano nella stessa formazione. Sicuramente questo è uno dei momenti più toccanti dello spettacolo perché il vocalist visibilmente emozionato posiziona il drappo sotto la batteria del tellurico Mocerino mettendola così in bella mostra. Dalla maestosa “Love Is Not A Game” per finire all’epica e sentimentale “Anytime”, intervallate da brevi discorsi e ringraziamenti da parte del singer, la platea esplode in continue approvazioni per quello che magnificamente ode. Anche qui l’intelligente Robin lascia che alcuni ritornelli siano cantati a squarciagola dalla folla posizionando il microfono in direzione della gente festante che lo saluta giustamente e meritatamente da autentica rock star. La ciliegina sulla torta sarebbe stata anche l’esibizione con il gruppo del chitarrista e produttore Aldo Lonobile, messo dietro le quinte come supervisore, che ha collaborato con il bravissimo Mcauley in studio negli ultimi e riuscitissimi dischi. Per la serie: non si può avere tutto.
Scaletta:
01. Thy Will Be Done
02. Standing On the Edge
03. Say Goodbye
04. Alive
05. Dead As A Bone
06. Feel Like Hell
07. ‘Til I Die
08. Soulbound
09. The Best Of Me
10. Love Is Not A Game
11. This Is My Heart
12. Gimme Your Love
13. Anytime
Dopo la riuscitissima e per il momento migliore esibizione della giornata, credo sia difficile ripetersi, ma in scaletta abbiamo ancora il meglio della rassegna sonora. Stasera la musica è all’insegna della nostalgia e dell’energia che ha reso i White Lion una delle più importanti band hard rock degli anni ’80 e dei primi anni ’90. Adesso è la volta del cantante Mike Tramp ex vocalist proprio dei defunti americani White Lion che negli anni ’80 hanno avuto un ruolo importante nell’hard rock melodico internazionale pubblicando delle pietre miliari del genere grazie soprattutto all’ottimo chitarrista Vito Bratta. Il buon Mike non si è mai rassegnato allo scioglimento nel ’91 del combo statunitense, cercando a più riprese di riformarlo anche con i membri originari. Tutti tentativi falliti che hanno portato anche ad una causa legale, vinta comunque da Tramp, per l’utilizzo del moniker. L’uscita del deludente Return Of The Pride del 2008 illude su un ritorno alla grande della band anche se con altri elementi. Qualcosa si spezza per sempre e irrimediabilmente perché manca quell’alchimia, quello spirito e quella spensieratezza giovanile che avevano fatti grandi i White Lion. Naturalmente mancava e manca tutt’ora la tecnica del grande Vito Bratta che stranamente si è ritirato da molti anni e purtroppo inspiegabilmente dalle scene.
L’ossessione di Tramp di tenere in vita le canzoni del suo “leone bianco” purtroppo continua ultimamente con le registrazioni del repertorio della sua ex band, proprio con la Frontiers che dà alle stampe due album intitolati: Songs Of White Lion, ennesimo e patetico omaggio ad un passato e a un gruppo che non ritornerà più. Mike è un ottimo cantante e un grande interprete e lo si sente in studio dove pur mantenendo le versioni originali li ammoderna sapientemente rendendole più fresche e attuali rispetto a quarant’anni fa. Stasera mi aspetto che canti anche qualcosa di suo e soprattutto di inedito, ma il logo sulla locandina e lo sfondo dietro la batteria con la scritta Mike Tramp’s White Lion è già tutto un programma e non lascia dubbi. L’iconico cantante, con addosso un bel completo jeans e accompagnato dalla sua incredibile band apre le danze con la tuonante e robusta, “Lights And Thunder”, ricca di melodie e momenti memorabili dettati da arazzi e assoli di tastiera che si alternano a quelli chitarristici dell’ottimo Marcus Nand. Quest’ultimo, insieme a Mike, è il protagonista dello show e in un certo senso non fa rimpiangere il mitico Bratta che tanto aveva dato per il successo di questo gruppo storico. Tramp parte bene e continua alla grande sfoggiando un fisico asciutto e atletico da fare invidia, ma è la voce, per fortuna, che spacca ancora e riesce a coinvolgere un pubblico partecipe e ansioso di vedere una leggenda del genere all’opera. Il popolo del festival lo sostiene canzone per canzone e non potrebbe fare altrimenti perché il singer scandinavo delizia tutti con brani intramontabili come quelli presi dall’album Pride del 1987: “Hungry”, “Lonely Nights”, “Wait” e “Tell Me” che ricevono un’ottima accoglienza. La musica parla da sola. Come il buon vino, la musica e i musicisti migliorano con il tempo. Il suono è buono soprattutto dopo quello che è successo nei giorni precedenti e lo si sente nel giusto bilanciamento degli strumenti che rende ottimale il mix tra voce e suoni. Il frontman punta pure su tracce malinconiche e dal forte impatto emotivo e sonoro, come la galoppante e cadenzata “El Salvador”, l’arpeggiante e sognante “When The Children Cry” e la sempre magnifica e vivace “Lady Of The Valley”, che conclude lo spettacolo in modo epico. Ma prima di queste tira fuori le unghie proponendo la dura “All The Fallen Man” da Fight To Survive del 1985 con il chitarrista solista Marcus Nand, una vera e propria forza della natura, che concede ruvidi riff e virtuosismi da vendere seguito alla batteria da Brentt James Arcement il quale, per tenere il ritmo, picchia le pelli così forte da quasi distruggere i suoi tamburi sotto gli occhi compiaciuti di un Tramp visibilmente felice. Tornando all’esecuzione di “When The Children Cry”, song più amata e cantata dai presenti, qui Mike racconta di averla scritta dopo aver fatto un sogno in cui si chiedeva come sarebbe stata percepita la sua musica dai suoi figli negli anni a venire. Anni che, per vari motivi e in molti campi, ormai stanno andando sempre a peggiorare. Nel complesso, a parte le belle canzoni proposte, la cosa che colpisce del vocalist è che all’inizio di ogni brano fa sempre una breve introduzione facendoci partecipi della sua carriera e delle sue emozioni. Insomma, un gran chiacchierone che scambia battute amichevoli con i suoi compagni di band e il pubblico, facendo sorridere ma dimostrando sempre una forte sensibilità quando tocca argomenti seri. Ah, dimenticavo che la scaletta regala diversi brani dall’album di debutto dei White Lion del 1985 come, la super ballata melodica “Broken Heart”, che mette in risalto l’intatta forza vocale di Mike creando in platea un’atmosfera riflessiva e romantica. Al termine Tramp, dopo un concerto senza macchie e sbavature, saluta tutti con la promessa di continuare a cantare in futuro le song dei White Lion (non avevo dubbi) e di realizzare un nuovo album in studio. Vedremo!
Scaletta:
01. Lights And Thunder
02. Hungry
03. Lonely Nights
04. Out With The Boys
05. All The Fallen Men
06. El Salvador
07. Little Fighter
08. Living On The Edge
09. Tell Me
10. Broken Heart
11. When The Children Cry
12. Wait
13. Lady Of The Valley
Dopo l’impetuoso spettacolo dell’arzillo Tramp tocca ai famosi canadesi Harem Scarem. Il Live Club è pieno di persone ed io sono bloccato nella mia posizione strategica, ma è da più di due ore che non vedo e non sento Luca al quale mando comunque un messaggio vocale avvisandolo che da qui a mezzanotte sono inamovibile ed irreperibile per chiunque. Questo ultimo frammento di festival è uno dei momenti più importanti e devo godermelo fino alla fine, così rimaniamo che ci vedremo in auto al termine del concerto. In un parterre gremito e sempre più bollente, i canadesi trovano pane per i propri denti aprendo alla grande con “Better The Devil You Know” dal nuovissimo album Chasing Euphoria. Qui l’isteria collettiva si unisce ai contagiosi riff di chitarra elettrica dell’eccellente Pete Lesperance, ipnotizzando un pubblico che salta e canta insieme al vocalist Harry Hess. Subito dopo i nordamericani, vestiti in modo sobrio per la serie l’abito non fa il monaco, continuano con un altro brano preso dall’omonimo e splendido disco del 1991, “Hard To Lone”, che presenta un ritornello cantato da tutti e quattro i membri della band e arricchito da prolungati assoli di chitarra che fanno immediatamente presa. Gli Harem Scarem sono un altro di quei gruppi in cui parla solo la musica di qualità e nient’altro. Sul palco, a parte il movimentato costante di Lesperance, con i suoi lunghi capelli argentati e Darren Smith che a torso nudo dietro le pelli canta il nuovo singolo “Gotta Keep Your Head Up”, troviamo il sostegno vocale nei cori di Hess che in verità è molto statico ma possiede una voce fantastica da far venire i brividi. Il quartetto con eleganza, classe, empatia ed esperienza mette a proprio agio i timpani di tutti mostrando anche un livello tecnico molto elevato, come nel caso del chitarrista Lesperance che mostra tutta la sua abilità esecutiva e compositiva. In effetti non è un caso che dopo quarant’anni i canadesi siano ancora al Top e siano una delle band più importanti di AOR al mondo. A parte il rock melodico il quartetto, ha nel suo repertorio pure dei robusti pezzi di hard rock, come l’avvolgente e corale, “Stranger Than Love” o brani strappalacrime come la sentimentale ballata in pieno stile AOR: “Distant Memory”. Quest’ultima provoca, con sdolcinati tocchi di tastiera e un romantico ritornello, un sobbalzo emotivo tra i supporter più accaniti. L’entusiasmo della gente è alle stelle, ma la sorpresa più grande è l’apparizione dell’affascinante Cassidy Paris, già vista e ammirata nella prima giornata, che insieme a Hess canta in duetto “The Death Of Me”, song che si presta alla doppia voce maschile e femminile. Dopo questo buon esempio di come la potenza si possa unire alla melodia, gli Harem proseguono con la ritmata e roboante, “Here Today Gone Tomorrow”. Qui il singer con la sua voce passionale e pulitissima accende i cuori dei presenti, ma è rinforzato da un muro sonoro composto di una, di due o a volte tre strati di voci, le quali creano un’imponente parete sonora che è poi l’inconfondibile marchio di fabbrica del combo canadese. La temperatura si alza e fa un caldo da morire, sia per la bravura dei musicisti che scaldano e trascinano l’intera platea con le loro splendide armonie, sia per il pienone che si registra nel locale. Si rende quindi necessario fare una pausa con il pezzo strumentale e solista di Pete, “Mandy” tratto dal capolavoro assoluto Mood Swing e capace di dare alla band una pausa necessaria prima dello sprint finale. In effetti gli Harem Scarem, ricaricate le batterie, ripercorrono il loro ultimo decennio con pezzi memorabili, come la super orecchiabile “Sinking Ship”, il cui canto corale ha sorprendentemente ottenuto una delle migliori accoglienze della serata, la lenta e malinconica “Honestly” la quale dimostra che Harry ha ancora una delle migliori voci naturali del rock melodico internazionale. I riflettori si abbassano e gli smartphone accesi e mostrati in aria creano un grande effetto e un imponente coinvolgimento vocale perché tutti cantano il ritornello insieme al mitico Hess, abile anche nell’arpeggio della sua chitarra classica. Piace pure l’allegra e vivace “Sentimental Blvd”, che vede nuovamente dietro il microfono il polivalente drummer che con la sua possente ugola crea un bel contrasto con le svenevoli corde vocali di Harry. Della serie non scontentiamo e cantiamo tutti viene data anche la possibilità al bassista Mike Vassos di cantare e interpretare l’inattesa cover del connazionale Bryan Adams, “Summer Of ’69”, che essendo una bellissima e coinvolgente canzone fa felice il popolo del festival che applaude e urla di gioia. Certo Bryan la canta molto meglio ma questo Mike lo sa ecco perché fa il bassista a tempo pieno. Gli ultimi omaggi all’ormai conclusivo Frontiers Rock Festival sono la super melodica “Slowly Slipping Away”, l’ultimo singolo “Chasing Euphoria” vero e proprio inno ultra melodico che fa praticamente alzare le mani in aria l’euforica e assordante folla del Live Club e la finale “No Justice” dall’album Moodswings del 1993, che presenta gli assoli orientaleggianti e iperbolici del maestro Lesperance. Riflettendoci su, proprio con il loro secondo disco Moodswings gli Harem Scarem si sono allontanati dal suono melodico e raffinato dell’album di debutto acquisendo personalità, audacia ed incorporando la melodia in un suono più musicale e robusto. Dopo tutti questi anni, queste sono ancora le canzoni sognanti ed emozionanti che ci si aspetta da uno dei migliori gruppi di questo genere musicale. Concerto praticamente impeccabile! È tardi, sono stanco dopo questi tre tirati giorni di musica rock ma felice. Non contento e per la gioia di Luca, accendo a tutto volume la radio in auto e mi dirigo verso i Navigli di Milano immaginandomi i gruppi dell’ottava edizione del Frontiers Rock Festival. La notte è ancora lunga e l’adrenalina è alle stelle.
Scaletta:
01. Better The Devil You Know
02. Hard To Love
03. Gotta Keep Your Head Up
04. Stranger Than Love
05. Distant Memory
06. Boy Without A Clue
07. The Death Of Me
08. Here Today Gone Tomorrow
09. Mandy
10. Sinking Ship
11. Honestly
12. Garden Of Eden
13. Sentimental Blvd.
14. If There Was A Time
15. Summer Of ’69
16. Slowly Slipping Away
17. Chasing Euphoria
Encore:
18. No Justice
Live report di Christian Rubino. Foto di Christian Rubino e Luca Perciabosco. Di seguito altre foto della giornata:
Seventh Crystal:
The Big Deal:
Ronnie Romero:
Storace:
Robin Mcauley:
Mike Tramp’s White Lion:
Harem Scarem: